DONALD FA SUL SERIO - CON I DECRETI PER USCIRE DAL TPP E RINEGOZIARE IL NAFTA, IL PRESIDENTE VUOLE RISCRIVERE LE REGOLE E IMPORRE NUOVE TARIFFE PER RIEQUILIBRARE I VANTAGGI DI MESSICO E CINA SUL LAVORO A BASSO COSTO - HA CAPITO CHE IL "FREE TRADE" FUNZIONA SE TUTTI ADERISCONO. E VISTO CHE PECHINO LA RIFIUTA, SALTA TUTTO
1 - DAL COMMERCIO LIBERO A QUELLO EQUO COSÌ DONALD SFIDA CINA E MESSICO
Paolo Mastrolilli per “la Stampa”
Pochi lo hanno notato, ma Donald Trump sta rubando le idee a Bill Clinton. Per esempio quella del «fair trade», ossia il commercio equo, da adottare al posto del «free trade», cioè il libero commercio. Una strategia che si è cominciata a materializzare ieri, con i decreti firmati dal presidente per uscire dal Tpp e rinegoziare il Nafta.
Il capo della Casa Bianca pensa che gli accordi per il commercio internazionale hanno penalizzato gli Stati Uniti, e in particolare i lavoratori americani, facendo scappare i loro posti nei paesi dove i salari sono più bassi. Quindi li vuole cancellare o riscrivere. Questo lo pone al centro di una disputa filosofica, oltre che politica, molto singolare per un repubblicano.
UN GALLO CON LE FATTEZZE DI TRUMP IN CINA
La dottrina del «free trade» favorisce la libera circolazione delle merci attraverso i confini, e aborrisce le tariffe protezionistiche: è il mercato che stabilisce gli equilibri. È la linea tradizionalmente favorita dal Gop, dagli anni di Reagan. La dottrina del «fair trade», invece, ha almeno due coniugazioni. Quella originale sostiene che i paesi in via di sviluppo sono penalizzati, perché i loro prodotti vengono sotto pagati da quelli ricchi, e quindi è necessario un intervento sovrannazionale per riequilibrare le regole del gioco a loro favore.
Quella trumpiana, lungi da questo approccio solidarista multilaterale, accusa invece Stati come il Messico o la Cina di aver approfittato della generosità e ingenuità americana, per trarre vantaggi economici e commerciali sfruttando le condizioni del lavoro e la manipolazione della moneta. Quindi punta a riequilibrare la situazione denunciando i trattati, rinegoziando le regole e, se questo non basterà, imponendo tariffe.
«Il fatto curioso - spiega Allen Sinai di Decision Economics - è che il termine "fair trade" era stato usato per primo da Mickey Kantor, rappresentante per i commerci dell' amministrazione Clinton, quando decise di andare allo scontro col Giappone, che veniva accusato di abusi simili a quelli rinfacciati oggi da Trump alla Cina o al Messico». Bill Clinton in sostanza aveva negoziato il Nafta, ed era stato l'alfiere della globalizzazione fino agli scontri del vertice Wto di Seattle, da cui era nato alla sua sinistra il movimento «no global».
Nello stesso tempo, però, aveva usato le maniere forti del «fair trade» col Giappone, come in teoria dovrebbe fare ogni governo progressista per difendere i suoi lavoratori. Adesso però questa stessa strategia la adotta Trump da destra, sorprendendo col suo populismo l'ortodossia dello stesso establishment repubblicano. «Il problema - continua Sinai - è che la dottrina del "free trade" funziona se tutti aderiscono. Se invece un paese come gli Usa la adotta, e un altro concorrente come la Cina la rifiuta, salta tutto: il liberista perde ed è costretto a cambiare linea».
Questo è quanto sta facendo Trump: «Non è filosoficamente contrario al libero commercio, ma ritiene che sia necessario riequilibrarlo, perché i concorrenti non lo adottano». Nel caso del Messico, «questo si traduce nella rinegoziazione del Nafta. Il trattato non sparirà, perché conviene a tutti, ma ci saranno mutamenti sulla collocazione delle fabbriche e le condizioni di lavoro».
Riportare la produzione negli Usa sarà costoso per le aziende americane, «ma potranno compensare aumentando la produttività e sfruttando le agevolazioni fiscali concesse dal governo». Invece nel caso della Cina, accusata anche di manipolare i cambi, «serviranno le tariffe». A differenza di quanto fece Tokyo con Clinton, Pechino non si piegherà alle richieste di Washington, e quindi «è probabile che andremo verso una guerra commerciale. Alle volte, però, per vincere è necessario combatterle».
2 - I BIG DELL’AUTO A COLAZIONE ALLA CASA BIANCA
Teodoro Chiarelli per “la Stampa”
La Motown va alla Casa Bianca. Gli amministratori delegati di Fiat Chrysler Automobiles, Ford e General Motors, i colossi dell' auto di Detroit, incontrano per la prima volta il presidente Donald Trump. L'obiettivo di Sergio Marchionne, Mark Fields e Mary Barra, manco a dirlo, è di instaurare un rapporto diretto e lasciarsi alle spalle l'epoca dei tweet, con i quali Trump ha colpito a più riprese Ford e Gm. Salvo poi elogiare Fca e la stessa Ford per gli annunciati investimenti negli Usa. Per Fca, inoltre, l'incontro cade poco dopo le accuse dell'agenzia Epa sulle emissioni diesel.
Un' accusa lanciata dall' Epa targata Obama e che ora finisce nelle mani della nuova amministrazione. La colazione sarà un' occasione per Trump di spiegare la sua nuova politica commerciale e per le case automobilistiche di presentare la loro opinione. Il presidente ha già avviato una radicale trasformazione della politica commerciale americana: dopo aver sfilato gli Stati Uniti dalla Trans-Pacific Partnership, si appresta ora a rinegoziare l' accordo commerciale del Nafta e a imporre pesanti "dazi" su chi sposta la produzione fuori dai confini americani e poi esporta negli Usa.