IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO UE VON ROMPUY SPUTTANA I LEADER ANTI-EURO: ‘’FACILE DARE LA COLPA ALL’EURO PER PROBLEMI NAZIONALI’’ - “L’ITALIA RISPETTI LE REGOLE, BRUXELLES SARÀ FLESSIBILE” – PER FORTUNA CHE C’E’ RE GIORGIO

Marco Zatterin per ‘La Stampa'

«L'Europa nella Tempesta», presidente. Ancora?
«Si, ma è uno stadio differente. A fine 2012 siamo usciti dall'occhio del ciclone, ora restano le turbolenze provocate dalla crisi finanziaria e dalle sfide della globalizzazione, che è una guerra economica».

Come ci si salveremo?
«Col completamento dell'Unione economica e monetaria (Uem). È il nostro problema interno. Dobbiamo rafforzare la capacità di fare politica economica in un mondo globale. Speravo di finire in ottobre, temo non sarà possibile».

Lei puntava sui "contratti volontari", gli accordi con cui ogni Paese si impegna a fare riforme in cambio di maggiore flessibilità di bilancio. Cos'è successo?
«E' chiaro che occorre un coordinamento economico più forte, in assenza del quale possiamo avere gli stessi problemi di prima. Dopo le discussioni di dicembre, credo che la proposta originale non andrà avanti. Dovremmo trovare un altro strumento».

Come mai?
«Abbiamo un doppio problema. C'è chi teme un eccessivo trasferimento di sovranità - non è il caso, perché sono contratti volontari -, e chi non s'intende sulla solidarietà - per alcuni è troppa, per altri è poca. C'è poi la sensazione - vera - che il peggio sia alle spalle, così non c'è il senso d'urgenza di prima. Per un certo verso sono deluso. Farò una proposta diversa rispetto all'autunno».

Ritiene inevitabile la mutualizzazione del debito?
«Alla fine, è una parte dell'Uem. Ma economicamente e politicamente non c'è consenso. E' una sfida per il mio successore. Verrà quando tutti i problemi saranno risolti».

Intanto, via alle riforme, no?
«Certo, ma con uno spettro ampio. Si deve rafforzare l'intensità del lavoro nella crescita senza dimenticare la crescita stessa. Bisogna pensare a ricerca, qualità, rapporto costi-efficienza, a favorire l'export».

Nel suo libro rivela di aver cambiato idea su Schröder e la violazione tedesca del Patto di stabilità di dieci anni fa.
«E' stato il ministro degli Esteri Steinmeier, prima delle elezioni tedesche, a spiegarmi che si trattò di una scelta strategica fra le riforme strutturali e il mantenimento del passo del consolidamento dei conti. Optarono per la prima. Per me era una novità. Mi ha colpito soprattutto perché il presidente dell'Eurogruppo Dijsselbloem ha proposto più flessibilità per i paesi in cambio di riforme strutturali. Steinmeier mi ha spiegato esattamente questo».

Lo pensa anche il governo Renzi. Lei è favorevole?
«Il caso dell'Italia è molto specifico. Berlusconi, Monti, Letta e Renzi si sono impegnati a rispettare le regole, cosa che non è successa in Francia o in Olanda. Non hanno chiesto un rinvio per spingere oltre il 3% il rapporto deficit/pil».

Dovevano?
«L'Italia ha una buona ragione per attenersi alle regole: il debito elevato. Deve ripristinare la credibilità. Credo che il rispetto dei vincoli e la flessibilità, per tutta l'Eurozona, siano contenuti in ciò che sta facendo la Commissione, e io sostengo. Flessibili sugli obiettivi nominali, rigorosi su quelli strutturali: mantenere la direzione e lavorare sulla velocità».

E se Renzi venisse a dire "farò come Schröder nel 2004"?
«Non posso immaginare che il parametro del 3% sia ammorbidito, sarebbe un segnale sbagliato. Però sotto il 3% ci può essere - come principio generale - un più grande margine di manovra».

Nei cinque anni al Consiglio Ue ha visto quattro premier italiani molto diversi. Che idea ha della nostra politica?
«C'è stato però un solo presidente, Giorgio Napolitano. E' stato positivo, un elemento di stabilità. Noto una crescente consapevolezza della necessità riforme nel campo fiscale, politico, amministrativo, giudiziario. A fine 2011, l'Italia si è risvegliata. Questo risveglio va trasformato in impegni concreti, economici e politici. Il problema è tenere insieme una maggioranza per sostenere le riforme. C'è bisogno di stabilità».

Senza posti di lavoro, l'idea stessa di Europa è in pericolo.
«Non va sottovalutata l'importanza decisiva delle competenze nazionali: negli Anni 90 i livelli d'occupazione in Francia e Germania erano simili e relativamente alti. Le riforme di Schröder hanno portato la disoccupazione al 5%, in Francia ha superato il 10. Il principio causa-effetto è palese».

Manca poco alle elezioni. Populisti e antieuro vanno forte.
«Il voto giunge un po' troppo presto. Abbiamo prospettive decisamente migliori rispetto a qualche mese fa, ma gli effetti sul lavoro non sono ancora arrivati. E' normale. Con la disoccupazione alta, è difficile convincere parte dei cittadini che stiamo superando i problemi».

La crisi del progetto europeo è più grande di così, no?
«Come si fa a rafforzare l'idea dell'Europa quando le si dà la colpa, o si dà l'impressione di incolparla, per problemi nazionali? C'è un divario fra i cittadini e l'Europa. Ma negli anni Novanta era lo stesso: il Fronte nazionale era forte già allora. Il nodo è il divario fra cittadini e politica. Se poi i leader trasferiscono il peso della sfiducia sull'Europa, il gioco è fatto».

 

 

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