GLI OSCAR DEI GIUSTI - L'ACADEMY PUNTA AL NUOVO, ALLE PRODUZIONI INDIPENDENTI, ALLA MINORANZA ASIATICA, AL CINEMA INTELLIGENTE, AL SOGNO SEMPRE POSSIBILE DI UNA RIVINCITA NELLA VITA E A UN PUBBLICO CHE DA DUE ANNI STA IN GRAN PARTE STESO SUL DIVANO - “EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE” PORTA A CASA BEN 7 OSCAR - LA VENEZIA DI BARBERA E CICUTTO, GIÀ COL FIATO SUL COLLO DEI VORACI SGARBI E GENNY SANGIULIANO PRONTI A SOSTITUIRLI, SI PUÒ CONSOLARE CON I DUE PREMI A “THE WHALE” DI DARREN ARONOFSKY - VIDEO
Marco Giusti per Dagospia
“Mamma, ho vinto l’Oscar!”. Col saluto del non più giovane Ke Huy Quan alla mamma di 84 anni che lo guarda in tv da casa, e con gli auguri di Michelle Yeoh ("A tutti i ragazzini e le ragazze che mi assomigliano e mi stanno guardando stasera, questo è un faro di speranza e possibilità. Questa è la prova che i sogni si avverano”), con Jamie Lee Curtis che ringrazia mamma e papà lassù (Tony Curtis e Janet Leigh…), e con la commozione di Brendan Fraser che fu una volta Tarzan, gli Oscar del 2023 puntano al nuovo, alle produzioni indipendenti, alla minoranza asiatica e al mercato asiatico, al cinema intelligente da festival, al sogno sempre possibile di una rivincita nella vita e a un pubblico che da due anni sta in gran parte steso sul divano come il personaggio di Fraser e la mamma di Ke Huy Quan.
“Everything Everywhere All At Once”, prodotto dalla indipendente ma ormai potentissima A24, senza esser passato né per Cannes né per Venezia, ma solo a Toronto, e uscito in sala sfidando e perculando il multiverso del “Doctor Strange” della Marvel, porta a casa ben 7 Oscar. Miglior film, miglior sceneggiatura originale e miglior regia dei Daniels, cioè Dan Kwan e Daniel Scheinert, miglior montaggio e ben tre migliori attori, la protagonista, la stupenda Michelle Yeoh, già stella del cinema internazionale (“La tigre e il dragone”, “Il domani non muore mai”) e prima asiatica a vincere l’Oscar, la non protagonista Jamie Lee Curtis e il non protagonista Ke Huy Quan.
Trionfo della A24, sì come l’autostrada per l’Aquila, che ha prodotto anche “The Whale”, altri due Oscar vinti, e “Marcel The Shell”. Adesso vi toccherà rimettere “Everything Everywhere All At Once” in sala, parlo agli esercenti, e vi toccherà vederlo, parlo a quelli che non lo hanno visto spaventati già dal titolo e dal trailer. E’ un film intelligente, vitale, di grande intrattenimento, con grandi attori e una serie di colpi di scena che non ti aspetti minimamente. Rappresenta, in modo popolare, la rivincita del cinema di invenzione.
In una stagione che è stata davvero ricca di film americani, e non solo, benissimo scritti, politici, innovativi. Dopo due anni di pandemia, siamo tornati al cinema e ci siamo un po’ tutti commossi o appassionati con film come “The Whale”, “Gli spiriti dell’isola”, “”Triangle of Sadness”, “The Quiet Girl”, “Aftersun”, “Tar”, ma anche i più classici “The Fabelmans” o “Empire of Light”. Che hanno in comune l’essere stati ideati e girati in un periodo di pandemia. Film, spesso con strutture da commedie, pochi personaggi, pochi ambienti, e grandi prove di attori.
Rispetto a questi ottimi film d’autore, però, l’unico che ha davvero incassato al botteghino americano è stato “Everything Everywhere All At Once” dei Daniels, 73 milioni di dollari (e un budget di 25) contro i 17 di “The Fabelmans” (con un budget di 40!) e di “The Whale” o i 6 di “Tar”. Ha cioè trovato un pubblico che non era il club dei soliti cinefili. Ha realmente sfondato una dimensione inesplorata. E per questo ha clamorosamente vinto 7 Oscar.
Non scordiamoci però che altri quattro Oscar sono andati al tedesco targato Netflix “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Edward Berger, miglior film straniero, miglior sceneggiatura non originale, miglior fotografia, James Friend, migliore musica, Volker Bertelmann. Diciamo che è il remake, se volete, del vecchio film di Lewis Milestone, ma soprattutto è l’unico film che ci ricorda che siamo in guerra nella vecchia Europa, e la guerra è brutale e inutile.
Ma non sottovalutiamo che Netflix, che un anno fa puntava, grazie a Venezia, a trombonate d’autore non riuscite come “Bardo” di Alejandro Inarritu e “White Noise” di Noah Baumbach, che ora fanno inutilmente muffa in streaming sulla piattaforma, ha sostenuto il film di Berger come unica possibile alternativa per gli Oscar molto presto intuendo il disastro dei film veneziani. Non è un capolavoro il film di Berger, e forse quattro Oscar sono troppi, ma per Netflix, che ha pagato a caro prezzo tanti film d’autore e tornata già da Venezia con un pugno di mosche in mano, è una vittoria.
Anche perché, contemporaneamente, ha vinto con “Pinocchio” di Guillermo Del Toro l’Oscar per il miglior film d’animazione, che, non so se lo sapete, ci mette in guardia dal pericolo fascista in Italia, trasportando la storia di Collodi dalla Toscana povera dell’800 all’italietta di Mussolini del 900 con tanto di Duce e podestà cattivi. Se “The Fabelmans” di Steven Spielberg, malgrado tutte le lacrime per il 35 mm e il 16 mm e il super8, non vince nulla, un po’ della vecchia magia spielberghiana vive nel premio al suo vecchio attore bambino Ke Huy Quan e alla messa in scena di “Everything Everywhere All At Once”.
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Nulla va al forte film irlandese e l’unico a tematica maschile-etero-bianca “Gli spiriti dell’isola” di Martin McDonagh, che pur era tra i grandi favoriti almeno per la sceneggiatura e i protagonisti. E sembra quasi un premio di consolazione il premio al miglior corto irlandese, “An Iris Goodbye”. Nulla va alla Cate Blanchett di “Tar”, grande favorita della serata e grande sconfitta, anche se, in effetti, non solo aveva già vinto due Oscar, ma non aveva con sé un film così innovativo come lo aveva Michelle Yeoh.
daniel kwan e daniel scheinert
E le attrici asiatiche non hanno mai vinto un Oscar in quasi cento anni di premiazioni. E’ una infamia che ben conosciamo fin dai tempi della stupenda Anna May Wong così ben descritta in “Babylon”. Nulla va alla divina Angela Bassett per “Wakanda Forever”, unica attrice nera in gara, battuta dalla superbianca Jamie Lee Curtis, anche se Michael B. Jordan e Jonathan Majors la salutano dal palco con una sorta di “Bella zi’” che non vale però la statuetta. Come nulla o quasi va quest’anno al cinema nero, che si deve accontentare dell’Oscar ai costumi di “Wakanda Forever”. Pochino.
Perfino la canzone di Rihanna, che si è esibita col pancione, è stata battuta da quella del kolossal indiano, divertentissimo (lo trovate su Netflix) “R.R.R.”. Il cinema al femminile vince solo per la migliore sceneggiatura non originale di Sarah Polley per il suo “Women Talking”, dotto dibattito fra donne su cosa fare di secoli di patriarcato maschile. Fortuna vuole che “The Woman King” della regista nera Gina Prince-Bythewood, snobbatissimo alle nomination, uscirà in Cina tra un mese. I kolossal dell’anno vincono premi periferici, diciamo.
“Avatar: la via dell’acqua” di James Cameron si deve accontentare degli effetti speciali, “Top Gun: Maverick” di John Krasinski vince per il suono. Il cinema italiano, ahimé, non vince nulla né per il corto di Alice Rohrwacher, “Le pupille” né per le acconciature di Aldo Signoretti per “Elvis”. Né Cannes né Venezia possono cantare quest’anno grande vittorie. La Palma d’Oro di Cannes, “Triangle of Sadness” di Ruben Ostlund, cede di fronte a “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, lanciato a Toronto, mentre il Leone d’Oro di Venezia, l’ultrafemminista militante “Tutta la bellezza e il dolore” di Laura Poitras, non vince l’Oscar per il miglior documentario, che va a “Navalny” di Daniel Roher.
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La Venezia di Barbera e Cicutto, all’ultimo anno da direttore e presidente, già col fiato sul collo dei voraci Sgarbi e Genny Sangiuliano pronti a sostituirli, si può consolare con i due premi a “The Whale” di Darren Aronofsky, miglior attore e miglior trucco.
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