DAGOREPORT – AVVISATE IL GOVERNO MELONI: I GRANDI FONDI INTERNAZIONALI SONO SULLA SOGLIA PER USCIRE DAI LORO INVESTIMENTI MILIARDARI IN ITALIA - I VARI BLACKSTONE, KKR, MACQUARIE, BLACKROCK, CHE ALL’INIZIO AVEVANO INVESTITO IN AZIENDE DI STATO, BANCHE, ASSICURAZIONI, RITENENDO IL GOVERNO DUCIONI STABILE E AFFIDABILE, DOPO APPENA DUE ANNI SI SONO ACCORTI DI AVER BUSCATO UNA SOLENNE FREGATURA - DAL DECRETO CAPITALI AD AUTOSTRADE, DALLA RETE UNICA ALLE BANCHE, E’ IN ATTO UN BRACCIO DI FERRO CON NOTEVOLI TENSIONI TRA I “POTERI FORTI” DELLA FINANZA MONDIALE E QUEL GRUPPO DI SCAPPATI DI CASA CHE FA IL BELLO E IL CATTIVO TEMPO A PALAZZO CHIGI (TEMPORANEAMENTE SI SPERA), IGNORANDO I TAPINI DEL MANGANELLO COSA ASPETTA LORO NELL’ANNO DI GRAZIA 2025
DAGOREPORT
stephen schwarzman di blackstone
Avvisate il governo Meloni: i grandi fondi internazionali sono sulla soglia per uscire dai loro investimenti miliardari in Italia. Blackrock, Kkr, Macquarie, Blackrock, che all’inizio avevano aperto il portafogli investendo in aziende di Stato, banche, assicurazioni eccetera, ritenendo il governo destra-centro stabile e affidabile, oggi sono dell’avviso di aver buscato una solenne fregatura.
La prima dose di veleno partita da Palazzo Chigi che ha fatto incazzare i cosiddetti “poteri forti” internazionali - da Blackstone a BlackRock son ben presenti nel capitale delle maggiori banche italiane - è stata la tassa sugli extra profitti bancari, subito rientrata dopo due fuorionda al cetriolo sulle smanie di Giambruno di “Striscia la notizia”.
giorgia meloni e giancarlo giorgetti 9
Quando i grandi fondi hanno sbarrato la strada di Caltagirone e Milleri-Del Vecchio per la conquista di Generali Assicurazione, assicurando all'Ad Donnet la maggioranza nel Cda del Leone di Trieste, da Roma è sbucato il famigerato Decreto Capitali, che ha ha innescato almeno cinque articoli apertamente ostili dal “Financial Times”, bibbia e house-organ del mercato finanziario internazionale.
Non ha reso più gradevole il clima il recentissimo annuncio di Matteo Salvini di alcuni impegni per l'anno nuovo: la presentazione di due provvedimenti, uno che ‘’garantisca il conto corrente a tutti’’ e un altro che ‘’limiti i margini multimiliardari delle compagnie’’ sulle transazioni delle carte di credito.
Ma al di là delle sparate salviniane, il rapporto dei colossi finanziari, specializzati nei settori di private equity, investimenti immobiliari, hedge funds e strategie di investimento con il governo italiano è già giunto a un livello di alta tensione.
Come si può desumere dall’articolo di “Repubblica” a seguire che squaderna in ogni particolare lo scontro in atto tra Palazzo Chigi e il più importante fondo americano, Blackstone, guidato dal fondatore Stephen A. Schwarzman (a Milano il managing director è Andrea Valeri), che ha investito in Italia 15 miliardi e Macquarie, la più grande banca d'investimenti australiana, guidata in Italia da Roberto Purcaro che ha investito oltre 5 miliardi di euro nel 49% di Open Fiber e in Aspi.
Eccoli duellare uniti contro le decisioni prese da Palazzo Chigi su Autostrade per l’Italia (Aspi): i due fondi vogliono non solo la testa dell’Ad Tommasi, in scadenza ad aprile 2025, ma soprattutto chiedono più dividendi. Altrimenti, tolgono il disturbo.
Ma una eventuale liquidazione ai fondi istituzionali delle quote Aspi dei due fondi infrastrutturali (Blackstone e Macquarie 24,5% a testa, mentre il Mef via Cdp ha il 51%), operazione che farebbe felice il neo-statalismo fazzo-meloniano, non è di facile soluzione.
Se Aspi piange, la Rete Unica non ride. Il fondo americano Kkr, che gestisce oggi circa 500 miliardi di patrimonio in 17 paesi, dopo aver sborsato un pacco di miliardi (18,8) acquisendo l’infrastruttura più nevralgica del paese, ora è imbufalito. E non solo per i tanti dindi necessari per acquisire anche quel casino alla fibra di Open Fiber, dove Kkr punta invece a farla fallire prendendola a costo zero.
Dagli Stati Uniti i capoccioni di Kkr sarebbero talmente incazzati che avrebbero di fatto depotenziato il presidente Sarmi e l’Ad Ferraris dal vertice della Rete trasferendo i poteri alla loro sede di Londra, a causa della relazione pericolosa della Ducetta con il Doge alla ketamina Elon Musk (il suo agente in Italia Andrea Stroppa è ben presente a Palazzo Chigi).
La “Tesla di minchia” mira a un bel contratto con il governo della sua amica Giorgia per far connettere sul territorio italico i suoi satelliti a bassa quota di Starlink fregando abbonamenti alle varie telecom italiche; un’operazione che, a cascata, ricadrebbe in negativo sui bilanci di Kkr, fornitore della Rete.
Secondo indiscrezioni di fonti autorevoli, Kkr smania talmente per uscire da Stivale & Manganello che starebbe trattando con il Mef-Cdp la riduzione a 3 anni della clausola che blocca la vendita delle loro quote per 5 anni. Nelle pieghe del contratto stipulato a suo tempo Tim-Kkr, nel malaugurato caso di andare in perdita, ci sarebbe anche la clausola che permetterebbe a Kkr di poter licenziare - sono 12 mila i dipendenti che si sono accollati per salvare il baraccone Tim.
Altro conflitto con i fondi arriva con l’operazione Unicredit su Bpm, che il governo vede come il fumo agli occhi, avendo puntato sul duplex Bpm-Mps. Salvini e Giorgetti, col fiasco sul tavolo, davanti al pericolo di “perdere” Bpm, hanno liquidato Unicredit come una “banca straniera”, minacciando persino il Golden Power.
Qualcuno ricordi a Lor Signori che il più potente alleato di Andrea Orcel si chiama Blackrock, il fondo americano di Larry Fink, guidato in Italia da Giovanni Sandri, è il primo azionista di Unicredit (7%) e il terzo di Commerzbank (7,3%), dove si gioca l’altra partita di Unicredit. Inoltre BlackRock detiene il 5% di Intesa Sanpaolo e controlla oltre il 4% di Mediobanca.
Andrea Orcel e Larry Fink si conoscono bene sin da quando il banchiere italiano lavorava, dal 1992 al 2012, nel dipartimento M&A di Merrill Lynch a Londra e ricopriva anche il ruolo di advisor della Banca Santander della famiglia Botin.
Quanto sopra sarà pure noioso da seguire però fa ben presente contro chi si sono messi a far la guerra quel gruppo di scappati di casa che fanno il bello e il cattivo tempo - temporaneamente si spera – a Palazzo Chigi.
AUTOSTRADE, I FONDI FRENANO IL PIANO SCONTRO SU 36 MILIARDI DI INVESTIMENTI
Giovanni Pons per “La Repubblica”
Il primo studio di fattibilità della Gronda di Genova, la grande opera infrastrutturale volta a dividere il traffico cittadino del capoluogo ligure da quello legato al Porto, è del 2002. Quindici anni dopo, nel 2017, arriva il decreto del Mit che approva il progetto definitivo e dichiara la pubblica utilità dell’opera.
Ma ad oggi, fine 2024, è stato fatto solo il Lotto zero, valore 250 milioni, nonostante Autostrade per l’Italia (Aspi) abbia inserito l’opera nel suo Pef (Piano economico e finanziario) 2020-2025 che prevedeva 14 miliardi di euro di investimenti nel periodo.
Il problema è che nel frattempo i costi di realizzo della Gronda - come quelli delle altre grandi opere come il Passante di Bologna, la A14, la A11, la A1 Milano-Lodi - sono lievitati di 6,5-7 miliardi per effetto delle nuove norme tecniche introdotte in seguito al crollo del Ponte Morandi e per l’aumento, post Covid, del costo dei materiali.
E così Gronda & C. sono ferme (senza finanziamenti sicuri il Mit non dà il via libera) e tutto il pacchetto è finito nel nuovo Pef di Aspi, attualmente in discussione, che prevede tra il 2025 e il 2029 ben 36 miliardi di investimenti.
Risorse che possono essere finanziate o da un consistente aumento dei pedaggi autostradali (+8,5% all’anno, secondo le indiscrezioni raccolte da Repubblica) o da un allungamento del periodo concessorio, o da una via di mezzo tra le due variabili.
Con una proroga dal 2038 al 2044 l’aumento delle tariffe scenderebbe al +3,5% all’anno, se si prolungasse fino al 2053 l’impatto sugli automobilisti scenderebbe al +2-2,5% all’anno. Sono decisioni che spettano alla politica, è il governo Meloni che deve decidere se quelle preventivate sono opere che servono al Paese per decongestionare i nodi supertrafficati di Genova e di Bologna. E se è disposto ad allungare, e di quanti anni, la concessione stabilendo quale sarà l’aumento delle tariffe che andrà a carico degli automobilisti.
Al momento queste decisioni latitano, si preferisce prender tempo, le grandi opere sono ferme al palo, mentre ai piani alti di Aspi, nella holding Hra dove sono presenti i rappresentanti degli azionisti (Cdp 51%, Blackstone e Macquarie 24,5% a testa), si registra un braccio di ferro con notevoli tensioni. Tanto che è stata messa sul piatto l’ipotesi di sostituzione dell’ad di Aspi Roberto Tomasi alla prossima scadenza di aprile.
In cda si stanno infatti confrontando due ipotesi. Quella del management che negli ultimi quattro anni ha cercato di riportare competenze industriali all’interno dell’azienda e che ora si sente pronto a procedere con i 36 miliardi di investimenti che servono al Paese, a costo di riequilibrare gli utili e la distribuzione dei dividendi;
e quella dei fondi che, partendo dal mantenimento della forte distribuzione di dividendi nei prossimi cinque anni, preferiscono ridurre il piano di investimenti a 21 miliardi (senza Gronda e Passante, per intenderci) con una proroga della concessione limitata a 4 anni e un aumento delle tariffe minimo, all’1,5-1,8%.
La Cdp insieme ai fondi Blackstone e Macquarie, al momento dell’acquisto dell’88% di Aspi nel maggio 2022, hanno definito una governance particolare secondo cui tutte le decisioni strategiche debbano essere prese all’unanimità del suo cda (4 membri Cdp, due a testa per Blackstone e Macquarie) e tutta la cassa prodotta al netto degli investimenti deve essere distribuita ogni anno sotto forma di dividendi o riserve.
dario scannapieco foto di bacco 5
Questo perché l’Acquisition Plan dei compratori, in base a quanto ricostruito da Repubblica, prevedeva un utile di esercizio di Aspi nel periodo 2020-2029 pari a 8 miliardi, e una distribuzione di dividendi molto aggressiva, a 8,5 miliardi (payout oltre il 100%) attingendo anche a 1,6 miliardi di riserve.
Tutto ciò per garantire ritorni sul capitale a due cifre e far fronte alla forte leva finanziaria utilizzata per l’acquisizione. Fino a ora la tabella di marcia è stata più o meno rispettata.
giovambattista fazzolari - francesco gaetano caltagirone
Tomasi in quattro anni ha messo a terra tutti gli investimenti autorizzati, A4, A8, Barberino Firenze Nord, Firenze Sud Incisa, ha spinto sugli ammodernamenti realizzando 5 miliardi di investimenti, uno in meno previsto dal suo piano, a cui si sono aggiunti circa 500 milioni all’anno di manutenzioni. Livello che ha permesso di distribuire, tra dividendi e riserve, circa 2 miliardi che diventeranno 2,8 con il risultato 2024.
Il problema si pone sul prossimo quinquennio. Con il piano Tomasi da 36 miliardi mancherebbero all’appello del 2029 1,6 miliardi di utili distribuibili che andrebbero recuperati su un periodo più lungo. E questo fatto scompagina l’Acquisition plan dei fondi e il loro ritorno sul capitale. Ma darebbe al Paese le opere promesse da vent’anni senza spedire ancora una volta la palla in tribuna.