IL DELITTO CHE CI HA CAMBIATO PER SEMPRE - VENT'ANNI FA LA CONDANNA DI ERIKA E OMAR, I DUE FIDANZATINI ADOLESCENTI DI NOVI LIGURE CHE MASSACRARONO A COLTELLATE LA MADRE DI LEI E IL FRATELLO, SENZA MOVENTE - IL PADRE, CHE SI SALVÒ PERCHÉ FECE TARDI DOPO CALCETTO, HA SEMPRE COLTIVATO L'AMORE PER SUA FIGLIA: AVREBBE POTUTO RINNEGARLA, VENDERE TUTTO, ANDARSENE VIA. E INVECE QUELL'UOMO FERITO, PIENO DI DIGNITA', DI DUBBI, FORSE DI SENSI DI COLPA, FECE UN'ALTRA COSA...
Marco Imarisio per “Sette - Corriere della Sera”
Fu la prima e unica volta che li vedemmo insieme. Non era il giorno della sentenza, che poi è la ragione di questo articolo, anniversario tondo, vent’anni fa la condanna di Erika e Omar, gli autori del delitto più atroce della storia recente e anche meno recente.
«Una cosa del genere accade al massimo ogni secolo, per fortuna» disse l’allora presidentessa del Tribunale dei minori, Graziana Calcagno, che fino all’ultimo ha continuato a pensarci, a quel fatto di cronaca ormai lontano, eppure ancora cosi aguzzo e presente nella memoria di tutti, anche di chi scrive.
Per la sua enormita, per le domande che obbligava qualunque madre o padre di famiglia a porsi, sui propri figli, che dopo l’infanzia non sappiamo piu chi sono, quasi estranei che si muovono silenziosi nella stessa casa, sul ruolo di un genitore.
Per l’assenza di qualunque spiegazione e di un movente plausibile, che rimase come un monito, a futura memoria. «Abbiamo perso la sicurezza degli affetti» scrisse Giuseppe De Rita sull’onda di una emozione collettiva.
A distanza di cosi tanto tempo, il caso di Novi Ligure resta una verita troppo nuda e un mistero senza parole che neppure le condanne, e le nuove vite dei protagonisti e le indiscrezioni pettegole sul loro conto possono chiudere.
Anche perche da questo grumo originato dall’indicibile, dalla rottura di ogni tabu, uccidere la propria madre e il proprio fratello dodicenne che nel suo ultimo tema aveva scritto «Il mio miglior amico e mia sorella Erika» ben presto nacque un altro mistero che ancora oggi turba, suscita curiosita anche morbose, e riguarda solo e soltanto il rapporto tra un padre e una figlia.
Tra un padre che non aveva piu nulla se non la figlia che gli aveva preso tutto, ed era tutto quel che gli rimaneva. Cosi e giusto tornare all’unico fotogramma che almeno nella memoria li ritrae entrambi, perche in realta a parte qualche sguardo rubato dal pertugio di una porta, quell’incontro ce lo raccontarono gli avvocati e gli uscieri del tribunale.
Era l’udienza dell’11 dicembre 2001, mattina di sole ghiacciato, una folla di cronisti e telecamere a battere i piedi per il freddo, come al solito in attesa davanti al palazzo basso e squadrato di corso Unione Sovietica, dove si teneva il processo. Il pubblico ministero aveva appena formulato la richiesta di condanna. Il massimo della pena, venti anni per lei, 16 per il suo complice Omar Favaro.
Al quale e sempre stata assegnata la parte del paggio, del fidanzato sottomesso, quasi fosse una nota a margine, quando invece nel suo stato apparente di imperturbabilita rappresentava un personaggio ancora piu inquietante.
Due giorni dopo il delitto, il mondo intero stava ancora cercando gli albanesi accusati da Erika. Ben presto si scoprira che uno era una celebrita del bowling di Novi Ligure, e la sera del delitto stava facendo strike in compagnia di altre trenta persone, mentre l’altro era cosi reale che quando i carabinieri le avevano mostrato sia l’identikit di Michele Profeta, il serial killer di Padova, che una foto di Michele Placido, lei aveva risposto sicura che «era lui», in entrambi i casi.
Intanto la Lega Nord faceva fiaccolate di protesta contro l’immigrazione clandestina «che porta gli assassini in casa nostra». Un bravo e rimpianto cronista del Messaggero, Mario Menghetti, si era messo in testa di fare un reportage sui ragazzi del muretto di Novi ligure, cosa ne pensavano di quel delitto cosi tremendo avvenuto a pochi metri dal loro luogo di ritrovo abituale.
Era rimasto colpito da un adolescente che fumava e rideva, fumava e rideva, e intanto prendeva in giro i giornalisti, dicendo «minchia speriamo che li prendono», che l’unica legge e quella del taglione, e che «ai criminali che avevano fatto quel macello bisognerebbe tagliarci le balle».
LA VERITA
Quel ragazzo si chiamava Omar Favaro. E da li a poche ore sarebbe stato convocato in caserma con un pretesto insieme a Erika, rimanendo solo con lei in una stanza per qualche ora, senza sapere di essere ascoltato.
E qui sarebbe facile ricopiare le intercettazioni, il dialogo tra due ragazzi che si rendono conto di aver colmato la misura dell’orrore con la tortura inflitta al povero Gianluca, che aveva 12 anni e idolatrava sua sorella e mentre si dibatteva nella vasca da bagno aveva strappato il coltello ai suoi carnefici e fu convinto con un sotterfugio dalla sorella a restituirlo, perche ancora si fidava di lei.
«Io penso a tuo fratello...». «Eh, minchia aveva solo dieci anni vissuti, mio fratello. Poi ha urlato, quando uno lotta per...». «E un bambino, cazzo». Mesi dopo il delitto e la sentenza, un criminologo oggi volto noto della televisione che comincio la sua ascesa mediatica proprio con il delitto di Novi Ligure, volle far sfoggio della sua conoscenza del caso gettando sulla sua scrivania le foto della scena del crimine, per mostrarle al giornalista che lo stava intervistando. Sono passati molti anni, e molte altre storie, piccole e grandi.
Ma ancora oggi, mi capita di sognare quelle immagini in bianco e nero. Gli occhi spalancati di Susy Cassini, la madre di Erika. Erano gli occhi di chi stava provando non solo lo strazio del proprio corpo, ma anche l’orrore di quel che stava accadendo. Quella donna mori sapendo che anche suo figlio stava per morire. E poi, il corpo martoriato di quel bambino. Una volta ogni secolo, davvero. Ma anche quel giorno, alla vigilia della sentenza, nessuno chiese di Omar.
I suoi avvocati uscirono dall’aula pressoche indisturbati. Contavano solo Erika, e quel padre, l’ingegner Francesco De Nardo, che si trovava in una situazione incredibile, tanto paradossale quanto tragica.
Non volle entrare in aula. Attese in corridoio, seduto su una panca. Lui non se la senti di ascoltare la requisitoria, di risentire la storia di un massacro che era anche la sua storia.
L’udienza precedente, quando il giudice gli aveva chiesto se voleva dire qualcosa sul futuro della figlia, aveva detto che preferiva non parlare, non se la sentiva. Poi aveva iniziato a piangere in modo sommesso.
Nessuno aveva osato avvicinarsi a lui, neppure l’avvocato Mauro Boccassi di Alessandria, un galantuomo che in quei mesi di tempesta e di dolore fu per lui molto piu di un semplice legale.
Dopo aver sentito le richieste dei pubblici ministeri, fu invece Erika a scoppiare in lacrime e singhiozzi. Si spalanco la porta, e lei – la intravedemmo per un attimo soltanto, indossava un piumino con il collo di pelliccia, aveva una espressione stravolta, stava urlando qualcosa che non riuscimmo a udire – si butto tra le sue braccia.
Sui giornali dei giorni seguenti, molti si chiesero cosa avrebbero fatto al posto di quel padre. Mollarla? Lasciarla cadere? Darle una sberla? Francesco De Nardo invece la abbraccio.
E le disse di farsi coraggio, ripetendo a sua figlia che non bisognava arrendersi. La tenne stretta, come aveva cominciato a fare subito dopo la scoperta che era stata lei, e come avrebbe continuato a fare negli anni, con una risolutezza che non hanno mai avuto deroghe o concessioni.
stabilimento pernigotti novi ligure
Come se salvare quella figlia considerata da tutti un mostro per quel che gli aveva fatto fosse diventato per lui l’ultima ragione di vita, una missione da compiere per redimere, per espiare, forse l’unico modo per salvare entrambi. Quell’incontro e quei gesti rappresentarono un sigillo.
Non importa se fu per stanchezza, per paura e per vero dolore, ma il pianto di Erika, per quanto giudicato con severita dai media, che avevano ancora negli occhi il racconto delle atrocita nella villetta di Novi Ligure, fu il primo segno di una consapevolezza, il primo passo di un percorso.
Da quel momento, da quando fu pronunciata la sentenza di condanna, la figlia usci di scena, come era giusto che fosse. Ogni tanto il suo nome riaffiorava sulle cronache, qualche foto rubata, qualche dettaglio sulla sua nuova vita.
Nel 2011, quando fini di scontare la sua pena e torno libera, sui social dell’epoca apparvero commenti sdegnati, gruppi Facebook contrari alla scarcerazione raccolsero in poche ore migliaia di iscritti.
UN PADRE
L’unico che in qualche modo non e mai andato via e l’autore di quell’abbraccio. Il vero mistero, cosi semplice nella sua nobilta d’animo da apparire di difficile comprensione per chiunque altro non abbia avuto la sventura di vestire i suoi panni, e proprio lui, il padre.
Quel 21 febbraio 2001, l’ingegner De Nardo era uscito per il calcetto del mercoledi. Fece un po’ tardi, e questo lo salvo. Dirigeva lo stabilimento dolciario della Pernigotti, viveva con la famiglia in una villetta di proprieta nella zona residenziale di Novi ligure.
Aveva una buona posizione economica, era sposato con Susy, la compagna di sempre dai tempi della scuola. Una coppia che aveva una figlia adolescente e un po’ complicata, nulla che facesse presagire quel che poi accadde, e un bambino, Gianluca, al quale il padre aveva trasferito la sua passione per l’Inter.
La domenica seguente, sarebbero andati insieme a vedere la sfida con la Juventus. Una famiglia normale, uguale a tante, magari anche alla nostra. Forse per questo, la voglia di sapere e di guardare del pubblico e dei media fu per una volta meno riconducibile a una curiosita morbosa e piu a uno sgomento collettivo.
E lo stesso sentimento che ha reso questo delitto un evento a parte, separato dagli altri celebri casi di cronaca nera del nuovo secolo. Perche guardare nell’abisso, non e mai facile. Francesco De Nardo lo ha fatto. E forse, non ha mai avuto altra scelta che questa.
Quando dopo una attesa interminabile il maresciallo della caserma si affaccio al cancello per dire «li hanno arrestati, sono stati loro», la folla di trecento persone che si era assiepata sul prato di fronte si spense all’improvviso.
Andarono via tutti, in un silenzio dove galleggiavano stupore, smarrimento, paura. In un angolo del cortile, stretto nel suo Loden blu, l’ingegnere osservo quella ritirata con una espressione spaesata in volto.
La mattina seguente ci sarebbero stati i funerali di sua moglie e del piccolo Gianluca. Quella notte, conclusi il mio articolo sostenendo che dal momento in cui lo avevano convocato per dirgli, a lui per primo, che era stata sua figlia, era diventato l’uomo piu solo e triste del mondo.
Mesi dopo, erano passate da poco le 23, ero al giornale, feci un tentativo. Entrai in un ufficio vuoto, era quello di Mario Luzzatto Fegiz, il nostro critico musicale. Composi il numero. De Nardo rispose.
La prima cosa che disse fu che non avrebbe mai parlato, che non avrebbe mai rilasciato una intervista in vita sua. Ma ando avanti, con uno sfogo. E comincio proprio contestando la mia affermazione finale contenuta in quell’articolo.
«La mia vita e stata spazzata via da un tornado» disse. «Ma non e vero che sono solo e disperato. Voi giornalisti vi ostinate a non capire che io ho ancora lei, ho Erika. E faro di tutto per proteggerla, finche rimarro al mondo».
Sono le cose che poi gli sono state messe in bocca tante volte per interposta persona, ma e tutto quel che c’e da sapere, per capire le ragioni di quell’abbraccio, della scelta di Francesco De Nardo, per avere rispetto e non giudicare i suoi comportamenti.
Quell’uomo voleva sparire, come poi fece, ma leggeva tutto, si informava. Sapeva che noi, e l’Italia, lo stava guardando, e lo giudicava, in gran parte senza comprenderlo. Fecero discutere le intercettazioni durante il primo colloquio in carcere dove chiede alla figlia in che modo avesse colpito le sue vittime, in cui le chiede di raccontargli ogni minimo dettaglio di quella strage.
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Un attimo dopo il dissequestro, torno a dormire in quella casa. La Pernigotti gli offri con discrezione la propria impresa di pulizie per lavare la villetta della strage. Lui rifiuto, e fece da solo.
Ci mise quasi due giorni, per scrostare il sangue di sua moglie di suo figlio dai pavimenti e dalle pareti della villetta. Nel maggio del 2001 invito a cena i tre consulenti di parte scelti per la perizia psichiatrica su Erika.
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Preparo la carne alla brace sul barbecue, come faceva nei giorni felici con la sua famiglia. Sullo stesso prato, proprio accanto al vialetto dal quale fuggirono i due assassini. Quando uno degli ospiti chiese se poteva avere un bicchiere d’acqua, indico la cucina, il posto dove era stata massacrata sua moglie. Lo psicologo disse che non se la sentiva di entrare li dentro. Lui annui. Si alzo, e ritorno con una caraffa d’acqua.
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LA SCELTA
La verita e che a Francesco De Nardo non e mai interessato quel che pensava la gente di lui. Divenne un personaggio per contrasto, con il suo silenzio, con la sua integrita quasi fuori dal tempo.
A chi vent’anni fa gli consigliava di aspettare, di riflettere prima di prendere decisioni, ha sempre risposto che aveva gia deciso quella notte in caserma, quando gli dissero chi era la persona che gli aveva portato vie le cose piu preziose che un uomo puo avere, quando si affaccio sull’abisso.
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Avrebbe potuto rinnegare sua figlia, vendere tutto, andarsene via. Ma nelle sue condizioni, l’unica cosa che poteva davvero fare un uomo cosi ferito, pieno di dignita, di dubbi, forse di sensi di colpa, era continuare a essere un padre.
E per farlo doveva andare a ritroso, seguendo una sua strada solitaria, non risparmiarsi nulla, incamerare dentro di se tutto quel dolore e quell’orrore, per esorcizzarlo per dedicarsi con tutto se stesso a Erika.
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Si e battuto come un leone, per imporre il silenzio stampa, per spegnere il rumore di fondo ogni volta che tornava a farsi sentire, convincendo sua figlia a seguirlo su questo terreno, far sparire ogni traccia, scomparire come unica con- dizione per poter ricominciare.
Non tutti hanno approvato questa scelta di vita quasi monastica, centrata su una figlia il cui nome per molti e ancora oggi sinonimo di un diavolo moderno. Ancora di recente, durante un talk show venne accusato di aver praticato la rimozione come medicina per se stesso, ammesso e non concesso che questa fosse una colpa.
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«Io non devo per forza capire perche lo ha fatto» disse durante quella telefonata. «Nelle mie condizioni, capire e un lusso», uso questa espressione, aggiungendo che sarebbe venuto il momento di affrontare quella sua battaglia privata, ma dopo.
Non c’era alcun mistero, disse. «In fondo e semplice: io sono suo padre, sono tutto quel che le rimane, lei e tutto quel che mi resta». Anche questa rievocazione gli procurera un fastidio profondo, come ogni refolo di notorieta che si solleva sul delitto di Novi ligure.
Ma se dovesse mai arrivare in fondo a queste righe, sappia l’ingegner De Nardo che in questi lunghi anni lo abbiamo pensato spesso, augurandogli una vita finalmente serena, per quanto possibile. Perche poche persone lo meritano piu di lui.