Carlo Cambi per “la Verità”
Per qualcuno che dal 27 aprile potrebbe tornare a lavorare ci sono 75.000 ristoranti che chiudono definitivamente.
Con una protesta clamorosa.
La fase «forse» 2 è stata sussurrata ieri dal gruppo di esperti guidato da Vittorio Colao che l' ha messa nero su slide in un rapporto di cinque pagine e l' ha spedita a Giuseppe Conte. I se e i ma sono tali che conviene prendere il responso dei «saggi» con le molle. A conti fatti potrebbero essere tra i 2,5 e i 2,8 milioni gli italiani che dal 27 aprile al 4 maggio tornano a lavorare e a produrre.
i sindacati Pare che Colao abbia fatto notare al presidente del Consiglio che la prudenza deve essere massima, ma che ogni settimana di fermo ci costa mezzo punto di Pil. E dunque è possibile che ripartano i cantieri, le fabbriche legate all' automotive, il tessile, anche perché già molti si sono portati avanti con il lavoro. Le condizioni che Colao ha individuato per dare il via libera sono che a lavorare vada solo chi è addetto alla produzione diretta: impiegati e over 65 restano o in smart working o a casa.
È necessario riscrivere il protocollo firmato con i sindacati sulla sicurezza. Poi però ci sono altre due condizioni che sembrano di difficile soluzione: il distanziamento sui mezzi pubblici e la fornitura di mascherine e di presidi di protezione individuale. Solo chi ha tutto in regola - mascherine, accordo con i sindacati e spazi in fabbrica sufficienti - può riaccendere i motori.
Ma a conti fatti servono almeno 7 milioni di mascherine al giorno. Domenico Arcuri, l' altro super commissario, può trovarne al massimo 4 milioni. E c' è una seconda domanda: chi paga? Si pensa d' imporre un prezzo politico, massimo 90 centesimi. Ma a ogni lavoratore ne servono almeno due al giorno e al mese diventa una tassa di 40 euro.
Pagano le aziende? Ma il prezzo imposto è possibile? Il gruppo dei ministri - tra i quali Paola De Micheli (Pd), l' annunciatrice di queste novità - che ha compulsato l' oracolo di Colao si è rintanato dietro la mascherina. Così più che fase 2 è ancora «fase forse».
Chi invece non aspetta più e chiude sono i ristoranti italiani ormai allo stremo. Si parla di un universo mal contato di 250.000 imprese che fatturano qualcosa meno di 85 miliardi e sono il terminale di altre filiere ormai in ginocchio: pesca, latte, vino. Hanno chiesto la cassa integrazione per quasi 600.000 dipendenti, di cui la metà donne, ma per ora non è arrivata. Così come non sono arrivati i soldi alle imprese né le linee guida per una possibile (ma quando?) riapertura. Perciò è sorta spontaneamente un' associazione di disobbedienza civile.
Si chiama Mio (Movimento imprese ospitalità) e mette insieme 75.000 ristoranti di tutta Italia. Il 28 aprile hanno deciso una clamorosa protesta. Insieme anche ai gestori di altri esercizi pubblici al grido di «Risorgiamo Italia» alle nove di sera accenderanno da Aosta a Lampedusa le insegne dei loro locali, li riapriranno simbolicamente. Il giorno dopo consegneranno ai sindaci le chiavi dei loro esercizi e abbandoneranno le imprese. Significa che circa un terzo di tutto il comparto cosiddetto horeca sarà chiuso.
La Fipe (Federazione dei pubblici esercizi di Confcommercio) stima che se anche il via libera alla riapertura di bar e ristoranti arriverà come si dice il 16 maggio circa metà delle imprese non riaprirà e andranno in fumo 50 miliardi di fatturato diretto con un effetto domino di 120 miliardi.
Peraltro anche i ristoratori del «Buon Ricordo» dopo innumerevoli e inascoltati appelli al governo hanno dato un ultimatum: o ci danno risposte al manifesto degli 8 punti che abbiamo sottoscritto con 34.000 operatori e i voucher per potere affrontare la ripartenza o non riapriamo.
palliativiIl manifesto della ristorazione sostanzialmente chiede: la cancellazione delle imposte nazionali e locali; il credito per le utenze; la proroga della cassa integrazione (peraltro non ancora erogata); la sospensione dei leasing e dei muti; un credito d' imposta del 60% sugli affitti in modo da non subire gli sfratti; l' estensione dell' asporto che solo alcune regioni sono disposte a concedere; e indennizzi a fondo perduto per il periodo di chiusura.
Intanto chi può cerca di resistere con le consegne a domicilio o con i dining bond: pagate ora la cena che consumerete quando possibile. Ma sono tutti palliativi anche perché i ristoratori non hanno alcuna certezza. Non sanno se dovranno montare i pannelli di plexiglas, se dovranno e come sanificare i locali, quanti coperti potranno gestire. Con le misure di distanziamento perderanno due terzi dei «posti» e non hanno più i numeri per gestire con profitto le loro «botteghe». Così il 28 aprile accenderanno per l' ultima volta le loro insegne e spegneranno per sempre i fornelli.