Simone di Meo per La Verità
Il lessico specialistico e la tipica sintattica giudiziaria nascondono, in realtà, i detonatori che possono far crollare un bel po' di inchieste in Italia, a cominciare da quella perugina che ha dinamitato il Consiglio superiore della magistratura con l' accusa di corruzione a carico del pm Luca Palamara e relativo virus trojan inoculato nel suo smartphone.
Una sentenza a sezioni unite della Corte di Cassazione - depositata il 28 novembre scorso - risponde infatti a uno dei rompicapi giuridici più frequenti nei tribunali italiani: l' utilizzabilità delle intercettazioni per reati diversi rispetto a quelli per i quali sono state autorizzate. Andiamo con ordine e partiamo da quel che dice la normativa oggi. L' articolo 270 del codice di procedura penale stabilisce in maniera generale che in altri procedimenti le intercettazioni possono essere utilizzate a condizione che si tratti di reati per i quali è obbligatorio l' arresto in flagranza, ossia un provvedimento di restrizione della libertà adottato dalla polizia giudiziaria in condizioni urgenti e straordinarie a cui di solito segue una misura cautelare.
RICCARDO FUZIO SERGIO MATTARELLA
L' interpretazione ordinaria di questa norma ha portato a ritenere che nello stesso procedimento non vi fosse limite alcuno di utilizzabilità delle intercettazioni, e che quindi il pm potesse «pescare» a piacere nelle conversazioni captate per trovare i riscontri alle ipotesi accusatorie e per cercare altri reati. Chiave di lettura, questa, che ha tuttavia sempre destato perplessità nei giuristi per l' evidente irrazionalità di far dipendere l' utilizzabilità o meno da un fatto burocratico-amministrativo quale l' identità o diversità del procedimento.
Il provvedimento della Suprema Corte ha ribaltato la situazione e ha iniziato a fare un po' di chiarezza introducendo due condizioni per la utilizzabilità delle intercettazioni: che si tratti di reati connessi dal punto di vista strutturale, logico e probatorio con quello per cui si procede; e che si tratti di reati puniti con pena superiore ai cinque anni. Questo che cosa c' entra con l' inchiesta di Perugia sul mercato della nomine dei procuratori?
Una cosa molto semplice, e cioè che ai coindagati di Palamara, accusati ad esempio di rivelazione di segreto (l' ex pg della Cassazione Riccardo Fuzio, e gli ex consiglieri del Csm Luigi Spina e Stefano Fava) o di favoreggiamento (il solo Fava), non possono essere contestati i fatti emersi dalle intercettazioni ottenute col trojan. E questo perché non sono collegati con il reato di corruzione, che è in capo al solo Palamara e che riguarda i suoi rapporti con un discusso imprenditore, e perché sono puniti con pena inferiore ai cinque anni. La posizione giudiziaria dei tre era particolarmente critica anche alla luce del fatto che il comma 1-bis dell' articolo 270 del codice di procedura penale, che dispone che le intercettazioni con virus informatico non possono essere utilizzate per la prova di reati diversi da quelli per i quali sono state autorizzati, è entrato in vigore il 31 luglio 2019.
RICCARDO FUZIO SERGIO MATTARELLA
Due mesi dopo, cioè, le indagini di Perugia (che risalgono a maggio). Col nuovo orientamento giurisprudenziale della Cassazione, i tre indagati collaterali di fatto si avvierebbero a una conclusione felice (e anticipata) delle loro traversie giudiziarie. Si tratta, ovviamente, di supposizioni che dovranno essere verificate alla luce delle motivazioni della decisione delle Sezioni unite. Se il principio che ha ispirato gli ermellini fosse di carattere universale (e cioè senza distinzione tra un procedimento e l' altro), le sorprese sarebbero appena all' inizio.