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MENTRE LE GRANDI AZIENDA USA GONGOLANO PER I FUTURI AFFARI A CUBA, NELL’ISOLA NESSUNO HA VOGLIA DI CAPITALISMO YANKEE: “ABBIAMO BISOGNO DI UN’ECONOMIA MIGLIORE, PER RESISTERE. MA RESTIAMO COMUNISTI”

Paolo Mastrolilli per “la Stampa”

steve mccurry   foto cuba 9steve mccurry foto cuba 9

 

Tutto qui parla di un tempo andato. Anzi no; di un tempo fermo, rimasto immobile come la Storia. Le lapidi lungo la strada che ricordano dove sono caduti i 214 «martiri», i cartelloni propagandistici con la faccia di Fidel ancora trentenne, il museo di Playa Giron che celebra «la prima sconfitta dell’imperialismo yanqui».

 

Visitare la Baia dei Porci nel giorno in cui Raul festeggia a L’Avana i «cinque eroi» tornati a Cuba dopo l’accordo col presidente americano Obama, e giura che «resteremo comunisti», è come viaggiare indietro nel tempo al 1961. Eppure anche qui sono pronti a fare la pace. Lo giura Alberto, militare in licenza, mentre guarda Raul in diretta sulla vecchia tv analogica accesa nel bar davanti alla spiaggia: «Io sono cresciuto qui, e sono orgoglioso del simbolo storico nella resistenza rivoluzionaria che rappresenta il mio Paese.

 

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Sono militare e, se servisse ancora oggi, sarei pronto ad imbracciare il fucile per difendere la mia patria. Però sono contento dell’accordo con gli americani, perché ci permetterà di vivere meglio. In fondo furono loro ad attaccarci, non noi. Fosse stato per Fidel, noi questa pace l’avremmo fatta mezzo secolo fa».

 

La disfatta «yanqui»

Era il 17 aprile del 1961, quando i mercenari assoldati dalla Cia sbarcarono su queste spiagge. La popolazione, invece di accoglierli come liberatori, si strinse intorno a Castro e li sconfisse. Il Presidente Kennedy, vedendo che nonostante il fiasco il suo gradimento nei sondaggi era cresciuto, commentò sconsolato: «Proprio come il mio predecessore: più sbaglio, più divento popolare». Poco dopo, infatti, fu proprio Kennedy a proclamare l’embargo che è servito solo a cementare il regime, e che adesso il suo ammiratore democratico Obama vuole cancellare.

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Venni qui la prima volta ventidue anni fa. L’Urss era implosa e tutti si aspettavano che Cuba, rimasta senza aiuti, seguisse. Diedi un passaggio in auto a un campesino che tornava dalla «zafra», la raccolta della canna da zucchero, e volevo sapere se anche lui si aspettava un cambio. Mi fissò serissimo, e rispose: «Quando la rivoluzione trionfò, il compagno Fidel aveva 33 anni e una lunga barba». In altre parole, la reincarnazione di Cristo. Il campesino così aveva armonizzato la tradizione cattolica in cui era cresciuto, e la rivoluzione guidata dall’allievo dei gesuiti di Santiago.

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Vent’anni dopo, poco è cambiato. Lungo la strada i contadini chiedono ancora passaggi, fiduciosi perché la solidarietà rivoluzionaria è sempre obbligatoria, soprattutto se guidi un mezzo dello Stato. A lavorare nei campi di canna da zucchero e yucca si va con i carretti trainati dai buoi e le case sono poco più che capanne. Con Raul è cambiato che si possono vendere, mentre prima al massimo potevi scambiare la tua abitazione con qualcuno che voleva venire al tuo posto. Ma chi, quaggiù?

 

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A L’Avana il salario medio è poco più di 300 pesos al mese, e una casa ricevuta dallo Stato per 4 o 5000 pesos la puoi rivendere ora a 10 o 15.000. Qui però l’economia è solo sopravvivenza, a meno che non arrotondi col turismo, che arriva per il brivido di immergersi nella Storia, e il gusto di vedere Cuba come altrimenti resiste solo nelle foto in bianco e nero. Le casupole così diventano «casas particulares» da affittare, dove non è difficile trovare turisti americani in bici.

 

Qualcuno però non ce la fa neppure così, e continua la triste tradizione dei «balseros», che adesso non si avventurano più sulle zattere verso la Florida, ma seguono la rotta più pericolosa dell’America centrale, per poi arrivare negli Usa via terra come i ragazzini che nel luglio scorso avevano assalito la frontiera col Texas.

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L’ingresso nel passato

Entri nel passato appena lasci l’autostrada che porta da L’Avana a Santa Clara. Nel villaggio di Australia un cartellone Anni Sessanta informa a caratteri cubitali: «Qui Fidel stabilì il comando per fermare gli invasori». La faccia del Líder Máximo ti osserva corrucciata, dal dipinto a colori tropicali. Poco più avanti Palpite, non più di venti case, ricorda che «qui si è combattuta una battaglia decisiva contro i nemici della rivoluzione».

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Sarà un caso, ma il business più fiorente appena fuori dal villaggio è l’allevamento dei coccodrilli, per ripopolare le vaste paludi vicine dove i mercenari del «Plan Pluto» pensavano di avanzare. C’è anche una base militare, perché questa rimane una zona di frontiera, e la Guardia Costiera vuole evitare che le sue insenature vengano sfruttate da altri invasori, o magari dai trafficanti di droga.

 

Se Santiago è la «ciudad rebelde siempre», Playa Giron è il luogo dove questa rivoluzione è morta e risorta in tre giorni: «Qui - spiega il cartello all’ingresso - è avvenuta la prima sconfitta dell’imperialismo yanqui». Per strada ci sono le insegne col nome, cognome e indirizzo dei capi locali dei Cdr, i comitati di difesa della rivoluzione, gli occhi di Castro usati spesso per denunciare e aggredire i dissidenti con gli «actos de repudio».

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All’ingresso del museo dedicato ai «martiri» c’è il carro armato dove era salito Fidel per guidare la riscossa. Dentro sono custoditi i fucili Garand, di costruzione italiana, che i miliziani popolari imbracciavano per sparare sui mercenari della Cia.

 

Cubani contro cubani; una ferita mai rimarginata, che spiega molto dell’odio con la comunità espatriata a Miami. La narrativa del museo dice che nel 1959 in questa zona la gente viveva producendo carbone vegetale, e i bambini morivano senza assistenza medica. Poi era arrivato Fidel e aveva mandato dottori e «brigadistas alfabetizadores».

 

ESULI CUBANI CONTRO OBAMAESULI CUBANI CONTRO OBAMA

Aveva anche tolto la terra al latifondo e nazionalizzato 382 imprese, come recita a caratteri cubitali un titolo di giornale del 14 ottobre 1960. Sei mesi dopo, l’attacco alla Baia dei Porci, perché «quello che gli Usa non possono perdonarci - come disse Fidel chiamando i cittadini alle armi - è aver fatto una rivoluzione socialista sotto al loro naso. E questa rivoluzione la difenderemo con questi fucili».

 

Cambiare per resistere

Barbara, guardiana del museo, non sa che fine farà, ora che gli yanqui non sono più nemici: «Spero che resti aperto. È giusto ricordare la nostra storia, anche se poi muta per il bene di tutti. Abbiamo bisogno di un’economia migliore, per resistere». Cambiare tutto, perché nulla cambi.

 

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È il militare Alberto, in calzoncini da spiaggia, che attira la mia attenzione sulla tv: «Guarda, è Raul con i cinque eroi!». C’è pure Elian Gonzalez, l’ex bambino diventato la causa di uno scontro feroce tra le propagande di Miami e L’Avana. Obama vuole metterci una pietra sopra, e il sergente Alberto ci sta: «Morendo, il mio predecessore Eduardo Delgado scrisse il nome di Fidel col proprio sangue: la vittoria rivoluzionaria di Playa Giron è scolpita per sempre nella storia. Ora, però, ci conviene voltare questa pagina».

 

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