Luca Fazzo per “il Giornale”
«Arrivai alla Cascina Spiotta poche decine di minuti dopo il conflitto a fuoco. Mara Cagol era stesa al suolo, nell'erba, già morta. La situazione era terribile, c'erano i due colleghi feriti in modo gravissimo. Dell'altro brigatista che era con lei non c'era più traccia, era riuscito a dileguarsi nella boscaglia.
Iniziammo da subito a cercare di dargli un nome, da alcune tracce all'inizio ci convincemmo che fosse Alfredo Bonavita, uno dei fondatori delle Brigate Rosse. Adesso invece a quanto pare si è scoperto che era un altro del nucleo storico, Lauro Azzolini». Uno dei due che nel 1977 avrebbero gambizzato Indro Montanelli. Azzolini spiega al il Giornale: «Dico solo che di quella operazione si assunse per intero la responsabilità, l'organizzazione Brigate Rosse».
Luciano Seno, alto ufficiale dei carabinieri e poi del Sismi, nel 1975 era l'uomo di punta della squadra appena costituita dal generale Dalla Chiesa per dare la caccia ai terroristi rossi.
Anche lui nei mesi scorsi è stato interrogato dai magistrati torinesi che hanno riaperto l'inchiesta sullo scontro a fuoco in cui persero la vita la brigatista Mara Cagol e il maresciallo Giovanni. D'Alfonso, arrivando a dare un nome al compagno della Cagol dileguatosi nei boschi.
Come fu individuata la Cascina Spiotta?
«Dalla Chiesa aveva avuto l'intuizione di allertare tutti i reparti territoriali dell'Arma perché dessero la massima attenzione ad appartamenti presi in affitto, casali, ville.
Non si parlava di cascine ma i colleghi di Acqui avevano messo nell'elenco anche la Spiotta.
Il 4 giugno era stato rapito l'industriale Vallarino Gancia, due giorni dopo era stato fermato nella zona Maraschi, un ragazzo che si era subito dichiarato prigioniero, capimmo che il sequestro era opera delle Br, fummo allertati noi del nucleo speciale e venne avviato il protocollo preparato per questi casi.
Ma il sopralluogo alla Spiotta era di routine, arrivarono lì dopo avere visitato alcuni casolari attigui, non erano preparati allo scontro a fuoco fin quando la Cagol non tirò la bomba che staccò di netto l'avambraccio al tenente Rocca. Il maresciallo D'Alfonso iniziò a sparare con tutto quello che aveva a disposizione, sparò fino all'ultimo proiettile che aveva, forse riuscì a ferire la Cagol.
Ma venne ucciso dai due brigatisti che cercavano di fuggire, ma si trovarono la strada chiusa da una nostra auto. La donna venne uccisa dall'appuntato Barberis: e non ho mai saputo se durante la sparatoria o da un colpo finale. Quando scoprimmo che era la latitante Cagol la cosa mi fece un certo effetto.
Perché poco tempo prima ero andato a Fiera di Primiero, in Trentino, a incontrare i suoi familiari, e la sorella Milana mi aveva detto: Viviamo nella paura che suoni il telefono e ci dicano che Margherita è morta. Toccò a me farle quella telefonata e accompagnarla il 6 giugno all'obitorio a fare il riconoscimento».
L'altro brigatista invece riuscì a fuggire.
«Purtroppo sì, ma è chiaro che non si può dare nessuna colpa ai colleghi che erano sul posto e che si erano trovati nel pieno di una tragedia. Le loro reazioni, e anche i loro ricordi personali, le dichiarazioni che hanno fatto in seguito, possono essere stati sicuramente condizionati dallo stato d'animo in cui si erano trovati all'improvviso.
Erano andati lì per fare un accertamento e si erano trovati attaccati con mitra e bombe a mano».
L'inchiesta successiva come venne condotta?
«Su questo ho qualche dubbio in più, diciamo che si poteva probabilmente essere più precisi. Adesso si è arrivati a identificare Azzolini. Come fisionomia e statura direi che corrisponde. Ma a quarantasette anni di distanza dai fatti avere delle certezze rischia di essere molto difficile».
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