Daniele Abbiati per “il Giornale”
Ai tempi del liceo, Il principe ci annoiava. Machiavelli indossava una specie di tunica alla antico romano, ma era molto meno solenne di Cicerone (naso da pugile e sguardo fiero), anzi all' apparenza era proprio insignificante. E poi, quella lingua che dicevano fosse italiano...ostica, involuta, illeggibile, absit iniuria verbis.
Tuttavia, capivamo che Il principe era importate poiché ci parlava di una «cosa» di cui, intorno a noi, oltre i banchi e ben dietro la lavagna, avvertivamo la presenza: il Potere. Consigli per gli acquisti, come avrebbe intimato di lì a poco Maurizio Costanzo, e per le vendite: il mercato del Governo. A ciascuno il suo, todo modo.
Poi, nel curriculum di studi tocco all'Arte della guerra di Sun Tzu, e quindi a von Clausewitz, che c'introdusse al politichese. E ora, per ripassare la materia parcheggiamo nel centro storico della res publicae, anche se fuori mano, rispetto a Pericle, Platone e la Thatcher, cioè in Cina, presso gli «Stati combattenti», ovvero la «guerra dei cent' anni» asiatica, che non cent' anni (meglio, 116) durò, bensì 232, dal 453 al 221 avanti Cristo.
In cattedra c'è Han Fei, un omarino mite e balbuziente, ma molto, molto irritato per la piega che avevano preso le cose, fra crisi, annessioni e cessioni di territori, torbidi di palazzo, ministri corrotti, sovrani imbelli, letterati profittatori, concubine ed eunuchi tramanti, eserciti rammolliti.
Un «tutti contro tutti» mai prima (né poi) visto sulla faccia della Terra. Il Lorenzo de' Medici del Machiavelli cinese era Yíng Zhèng, re dei Qin, quello che si portò nella tomba il suo esercito di terracotta, affinché lo servisse anche nell' Aldilà. Il sovrano mise così bene in pratica la teoria politica di Han Fei da diventare nel 221 a.C. il primo cinese a fregiarsi del titolo di imperatore, unificando tutti gli Stati da lui dominati.
«Gli antichi - scrive Han Fei - avevano un proverbio che dice: Governare il popolo è come lavare la testa di un uomo. Anche se cade qualche capello, il lavaggio va fatto. Chiunque rimpianga i capelli che cadono, e dimentichi il beneficio ricevuto dall' irrobustimento dei capelli che crescono, non conosce la dottrina del fine che giustifica i mezzi». Eccola qui, la formula magica, proposta diciassette secoli e spiccioli prima che il prode Niccolò la consegnasse alla storia.
La leggiamo in Han Feizi, cioè «il libro del maestro Han Fei», volume che presenta 29 dei complessivi 55 capitoli della sua summa (Einaudi, pagg. 322, euro 35, a cura di Giulia Kado). A petto della quale il cinico Machiavelli sembra un Marco Pannella, se non addirittura un Errico Malatesta. Il fine giustifica i mezzi, e nel frattempo i mezzi illustrano in maniera inequivocabile il fine.
«I re del passato - ammonisce Han Fei -, consapevoli di non poter fronteggiare gli atteggiamenti subdoli dei ministri, rinunciarono a fare uso delle proprie doti intellettive e si affidarono alle leggi e alle tecniche per farle rispettare, prestando una particolare attenzione alla distribuzione delle ricompense e delle punizioni». Lo Stato, insomma, è una macchina: senza la benzina della legge non va.
Han Fei appartiene infatti alla corrente di pensiero legista, in radicale polemica con il buonismo confuciano, e propensa a seguire il daoismo, dove il «dao», la «via», è quella del sovrano illuminato.
«La politica prospera in un clima di omertà, la propaganda la distrugge»: altro che comunicazione. Per tenere a bada il popolo, che «non è abbastanza intelligente da poter essere preso in considerazione», occorre applicare «il principio della reciproca delazione».
Quanto al bilancio delle casse statali: «oggi, una spesa eccessiva non è considerata un reato, mentre un infimo ricavo è già un risultato» (riferimento agli zero virgola del Pil?). E, sull' amministrazione della giustizia: «oggi, il potere di un semplice magistrato è infinitamente più grande di quello di un antico imperatore» (pensava al Tar?). Non parliamo poi degli intellettuali: «Nello stato retto da un sovrano illuminato non circolano libri, non scorre la cultura, gli unici insegnamenti sono gli articoli della legge».
Nel 1973, durante la «rivoluzione culturale», Mao utilizzò l'Han Feizi per la propaganda contro Lin Biao e il solito Confucio. Ovviamente omettendo di ricordare la fine che fece il suo autore. Accusato ingiustamente da Li Si, un ministro del re di Qin, di tramare a favore del concorrente re di Han, venne sbattuto in galera. Dove bevve il veleno procuratogli dal geloso Li Si. Correva il 233 prima di Cristo. Dodici anni dopo, soprattutto grazie ad Han Fei (o per colpa sua, scegliete voi) la Cina sarebbe diventata un impero.