Stefano Folli per “la Repubblica”
L’ultimo paradosso italiano è anche il più spettacolare. Da un lato, Mario Draghi che si muove da protagonista al G7 e subito dopo al vertice della Nato convocato per ridisegnare, in tempi di guerra, le priorità geopolitiche e militari dell'Occidente: un momento che potrebbe diventare storico, o quantomeno in grado di essere riconosciuto come tale fra qualche anno. Per adesso viene ribadita la solidarietà attiva con l'Ucraina e anche su questo punto il presidente del Consiglio è esplicito.
Dall'altro lato, c'è lo spettacolo provinciale di una politica domestica che non riesce a sollevarsi dalle sue beghe. Draghi sembra muoversi sulla scena internazionale ostentando indifferenza, cioè senza curarsi delle convulsioni dei partiti che pure fanno parte della maggioranza di quasi unità nazionale. Dietro il rispetto formale del protocollo politico e parlamentare, s' indovina un distacco che un tempo sarebbe stato impensabile. Non è l'effetto dell'"arroganza tecnocratica", come dice qualcuno, bensì del collasso della politica.
O almeno di quei segmenti che hanno dominato la scena negli ultimi quattro anni. Forse non è un caso se Draghi ha scelto di fare una valutazione molto politica quando ha insistito, a margine del G7: "La crisi energetica non deve produrre un ritorno del populismo". Frase che definisce una linea discriminante: e ciò proprio nei giorni in cui si misura il cortocircuito dei movimenti, appunto, populisti.
Ne è conferma il fenomeno più clamoroso: i Cinque Stelle dopo la scissione del gruppo Di Maio. È comprensibile che Conte e i suoi si sforzino di sopravvivere, tuttavia è evidente che sono privi di qualsiasi idea che non sia la guerriglia pressoché quotidiana, ma di corto respiro, nei confronti del governo e del premier.
Del resto, l'antico padre carismatico, Beppe Grillo, maschera a malapena il fastidio, se non il disprezzo, per la sua creatura. Lungi dall'essere venuto a Roma per dare una mano a Conte - a parte le frasi di circostanza - , egli si preoccupa di far capire a tutti di essere ancora la "guida suprema" di quel che resta del M5S. E di aver deciso che si continua ad appoggiare Draghi, quindi si resta nel governo. Collocazione che in verità Grillo, per motivi pubblici e privati, non ha mai messo in dubbio. Si dirà che un giorno o l'altro i "contiani" vorranno liberarsi dalla tutela del padre-padrone.
Può darsi, ma non siamo certo a quel punto. Per ora l'avvocato del popolo si trova stretto nella solita tenaglia. Se sospende le ostilità verso Palazzo Chigi delude i più accesi tra i suoi sostenitori e si espone alla domanda ovvia: ma allora perché avete rotto con Di Maio sulla politica estera, se poi continuate a votare nello stesso modo? Se viceversa ascolta i consiglieri più bellicosi, deve preparare l'uscita dall'esecutivo e il reingresso nel movimento dell'irrequieto Di Battista, simbolo stesso della deriva massimalista.
LUIGI DI MAIO - BEPPE GRILLO - GIUSEPPE CONTE
La mossa avrebbe una sua logica, visto che già oggi la scissione tende a spingere i 5S verso i confini della maggioranza. Ma esige una tempra che Conte non ha mai dimostrato di avere, tant' è che al momento il suo impegno è dedicato a introdurre eccezioni alla regola dei due mandati, nella speranza di costruirsi un piccolo cerchio di fedeli. Non proprio un orizzonte rivoluzionario. Ecco perché gli stessi che vogliono i 5S fuori dal governo desiderano anche affidare la risalita elettorale alla verve demagogica di Di Battista. Per Conte si preparano tempi cupi.