Ferruccio De Bortoli per "l'Economia - Corriere della Sera"
Tutto sommato è un derby italiano. E ne dovremmo essere fieri. Ma, nello stesso tempo, meglio preoccuparsi. Il futuro di Generali, una delle poche, vere e ultime multinazionali del nostro Paese, è legato alla contesa aperta tra due schieramenti nazionali. Evviva. Se si confrontano sul mercato, con le regole di mercato, una Commissione per la Borsa (la Consob) che il mercato controlla (in questo caso molto poco) e un'autorità come l'Ivass che fa il suo mestiere, ne siamo tutti lieti. Eppure non è così semplice.
Nonostante parlino tutti la stessa lingua. Una volta tanto non siamo preda. E non c'è nemmeno l'alleato straniero, spesso infido, chiamato a sostenere una delle parti di tante e infinite faide, non solo finanziarie, della Penisola. Non c'è, per esempio, un Vincent Bolloré, uno degli innumerevoli cavalieri stranieri attratti dalle ricorrenti divisioni dei soci storici della banca d'affari milanese.
Un tycoon che in Francia incoraggia la candidatura di Eric Zemmour ed esprime una cultura personale e politica assai lontana da quella di Enrico Cuccia o Adolfo Tino. Né una figura che si avvicini tanto per fare un esempio - all'imprenditore rampante ceco Petr Kellner, morto tragicamente lo scorso anno, che arrivò ad avere il 2% del Leone ma consentì a quest' ultimo di rafforzarsi nel suo novecentesco mercato con base a Praga. Franz Kafka, ricordiamo, fu un dipendente di Generali. Kellner non fu l'unico azionista interessato più al patrimonio immobiliare che allo sviluppo del gruppo finanziario e assicurativo.
Più alle operazioni con parti correlate che allo sviluppo complessivo. Non c'è una Lazard con il suo stizzoso patriarca, Antoine Bernheim, per due volte su indicazione di Mediobanca, e anche in età pericolosamente avanzata, presidente del Leone di Trieste senza peritarsi nemmeno per sbaglio di pronunciare una parola italiana.
Ci sono in invece due imprenditori italiani di grande successo, due self made man autentici, Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone, alleati alla fondazione Crt, che vorrebbero farla finita con l'autoreferenzialità ovattata dell'asse tra Mediobanca e Generali. Se lo possono permettere. Del resto non fu proprio Cuccia a dire che negli affari conta l'articolo quinto, ovvero chi ha i soldi ha vinto?
Certo, sono due anziani e risoluti padroni che, mentre si discute su come separare, specialmente in Italia, gli azionisti dai manager ed uscire dalla trappola della eccessiva identificazione tra proprietà e dirigenza, sono più inclini - pur nella grande differenza tra i due profili imprenditoriali - a una visione cesarista della gestione aziendale. Diretta, schietta. Ingombrante anche se non raramente coraggiosa e visionaria. Giurano di non farne una questione di potere.
Ma la domanda di fondo è una sola: hanno in testa lo stesso disegno o sono tatticamente uniti solo dall'avversione al management di Milano e di Trieste? Il patto dei dissidenti controlla ufficialmente il 16,5 per cento. Ma probabilmente la quota degli ultimi giorni è ulteriormente cresciuta grazie alla libertà di movimento ottenuta con le dimissioni dal consiglio d'amministrazione. Dall'altra parte, la Mediobanca - presieduta da Renato Pagliaro e guidata da Alberto Nagel - è espressione di una tradizione prestigiosa di competenza e indipendenza professionale.
Una volta era l'unica vera banca d'affari del Paese. Tutto passava da lì. Un'istituzione nella quale gli azionisti hanno sempre avuto meno potere dei manager. La Mediobanca di Cuccia e di Vincenzo Maranghi, per usare un'espressione anglosassone ,«teneva per le palle» i propri azionisti, ai quali assicurava non solo il credito ma anche il controllo, spesso minoritario, dei gruppi che a volte si illudevano di possedere.
Quella Mediobanca, tanto per intenderci, non aveva bisogno di ricorrere a un costoso prestito di titoli delle Generali (4,2 per cento che scade dopo l'assemblea) per sostenere la propria posizione (controlla ora il 17,2 per cento) e contrastare l'ascesa di due suoi azionisti. Uno in particolare, come Del Vecchio, in maggioranza relativa in piazzetta Cuccia (19,9 per cento).
Gli faceva pagare il prezzo di ammissione al salotto buono in altro modo. Salato ma differente. E la cessione di Banca Generali a Mediobanca sarebbe passata in silenzio anziché infrangersi (giustamente) in distinguo e opposizioni.
Ma quella Mediobanca non c'è più. Anche se non tutti sembrano esserne consapevoli. Le azioni si contano - e una volta si pesavano pure - ma in tutta la vicenda sembrano prevalere, e questo è stupefacente, i caratteri. Gli umori e i risentimenti.
Del Vecchio non prese bene il no di piazzetta Cuccia alla sua donazione di 500 milioni all'Istituto europeo di oncologia (Ieo) fondato da Umberto Veronesi con il sostegno filantropico di Cuccia e Maranghi. Che la grande disfida della finanza italiana sia stata innescata da un malinteso gesto di solidarietà aggiunge un qualcosa di melodrammatico, persino romantico, all'intera storia. Ma De Amicis non c'entra.
A leggere la lettera con la quale Caltagirone si è dimesso dal consiglio e - dopo 12 anni - dalla vicepresidenza di Generali, sembra che gli amministratori non abbiano mai avuto l'occasione di confrontarsi lealmente ma solo di sospettarsi a vicenda. In tutti questi anni! E che il consiglio sia stato sempre eterodiretto da Milano nonostante la navigata presidenza di Gabriele Galateri. La parte avversa accusa Caltagirone e Del Vecchio di aver sistematicamente ostacolato i lavori del consiglio.
Loro rispondono confrontando la crescita del Leone con quella dei rivali europei in particolare Axa, Zurich (diretta da Mario Greco estromesso a suo tempo da Trieste) e Allianz (dove c'è Sergio Balbinot, ex amministratore delegato). Non c'è confronto, nonostante i buoni risultati della gestione di Philip Donnet che, detto per inciso, parla un ottimo italiano e ha preso persino la cittadinanza tricolore. Tutto ciò, visto con gli occhi di un osservatore straniero (e di interessati ve ne sono molti) getta una luce sinistra sull'intera classe dirigente italiana.
Donnet Caltagirone Del Vecchio
La governance, non solo di Generali e Mediobanca, è fondamentale per attrarre investitori seri, non raider. Oltre che dimostrare il grado di serietà di un Paese. Ed è questo l'aspetto che sfugge nel commentare l'appassionante, ma forse inutile se non dannoso, derby italiano della finanza. Una disfida tra azionisti che arriva fino a una reciproca delegittimazione morale non sarebbe nemmeno immaginabile in Francia per Axa o in Germania per Allianz. Generali ha un attivo patrimoniale che è un terzo del prodotto interno lordo italiano. Un gigante dell'asset management.
gabriele galateri di genola philippe donnet
Se il risparmio è l'ultima ricchezza degli italiani è del tutto incomprensibile che non si studino aggregazioni e sinergie per gestirlo al meglio. Almeno quello che resta. Pioneer fu ceduta da Unicredit, gestione Jean Pierre Mustier (anche lui non pronunciò mai una sola parola in italiano) per ridurre il peso dei non performing loans. Lo scontro di mercato è appassionante. In aprile uno degli schieramenti vincerà. Ma per quanto? E con quali conseguenze sugli assetti di Mediobanca, sulle probabili code giudiziarie, sulla stabilità e sulla qualità del management?
louise tingstrom jean pierre mustier
Prima o poi, rischi di concerto a parte, ci si dovrà sedere intorno a un tavolo. I contendenti parlano la stessa lingua. Non aspettino di sentirselo dire, in un altro idioma, da chi ha più potere. Cuccia teneva molto alla sua creatura, alla banca che aveva fondato nell'immediato Dopoguerra. «Ma quello che l'Italia non può permettersi - diceva a un meno convinto Maranghi - è di perdere le Generali».