
“DICI SEMPRE CHE SEI DELLA ROMA, MA QUANDO VIENI AD ALLENARLA?” - BRUNO CONTI E LA BATTUTA CHE FA SEMPRE AD ANCELOTTI (CHE FRIEDKIN VORREBBE A TRIGORIA): “E’ UN AMICO, GLI CHIEDO SPESSO DI TORNARE” – MA LA SQUADRA CON RANIERI E’ RINATA. E SE FOSSE LUI IL FUTURO IN PANCHINA? – DA PADRE ANGELO BENANTI, IL FRANCESCANO CHE GUIDA IL COMITATO SULL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE, A LINO BANFI FINO AL BRASILIANO, ALIAS MASSIMILIANO MINNOCCI, ORMAI PRESENZA FISSA IN MONTE MARIO: ECCO CHI C’ERA A GUSTARSI LA NOTTE MAGICA CONTRO IL BILBAO IN EUROPA LEAGUE – FOTO BY MEZZELANI
Matteo Pinci per repubblica.it - Estratti
Bruno Conti, tra pochi giorni festeggerà 70 anni. Se chiude gli occhi, qual è il primo ricordo che viene a galla?
«Ho vissuto più di 50 anni di calcio, non è facile. Ma il primo pensiero va a mio padre, a quando sono stato preso alla Roma nel ’74 e a casa nostra è arrivata questa notizia: aveva fatto sacrifici per crescere sette figli, quando gli dissi che mi avevano preso non stava più nella pelle. Era un taciturno, non è che parlasse tanto, ma negli occhi vedevo la sua gioia, la sua soddisfazione: suo figlio andava a giocare nella Roma».
Da lì ai Mondiali del 1982: è vero che facevate degli stornelli, delle canzoni un po’ ironiche?
«Era con Gianpiero Marini: lui suonava la chitarra molto bene, allora io e Ciccio Graziani ci cantavamo sopra e venivano fuori delle canzoni un po’ strane, capito? Sa, le osterie…».
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E qualche sigaretta…
«Non è bello dirlo, ma fumo da quando ero ragazzino: siamo cresciuti in strada. Una volta era diverso, c’erano tanti calciatori con il vizio, sembrava normale. Poi, però, quando la vita ti presenta il conto e nascono problemi a livello medico, che vanno tanto ma proprio tanto a condizionare la tua salute, ci ripensi...».
bruno conti sbaglia il rigore nella finale roma liverpool - Bruce Grobbelaar
La canzone La leva calcistica della classe ’68 è dedicata a lei o a Di Bartolomei?
«Molti pensavano fosse per me, per quel ragazzino con la maglia numero 7. Ma, come mi ha detto Francesco De Gregori, era dedicata ad Agostino».
Le manca, Di Bartolomei?
«Lo avevo conosciuto prima di arrivare alla Roma: un cugino di mia moglie mi aveva invitato a fare una partita di calcetto a Lavinio, vicino alla mia Nettuno, e c’erano lui, Bruno Giordano e Stefano Di Chiara: non stavo nella pelle, ero romanista da sempre, andavo a giocare una partita insieme a gente che già era la serie A. Ci siamo conosciuti lì, poi il giorno che sono arrivato in prima squadra è stato il primo a accogliermi. E poi è diventato il mio capitano, con tutto quello che abbiamo vissuto insieme: scudetto, finale di Coppa dei Campioni: veramente lo amo».
L’ultima volta che lo ha visto?
«È il mio rammarico. Poco prima che succedesse quello che è successo avevo organizzato una partita al palazzetto dello sport con tutti gli amici dello scudetto per raccogliere fondi per un amico rimasto paralizzato. Venne anche Agostino: era sereno, si rideva, si scherzava, non c’è stato nulla che potesse far pensare, non ci ha fatto capire cosa aveva dentro. Mi è rimasto quel rimpianto».
Ha tanti amici anche fuori dal campo. Uno è Venditti.
«Mi invitò sul palco a un concerto a Nettuno. Negli anni da responsabile del settore giovanile, ogni volta che andavamo a fare una finale, mettevo sul pullman le canzoni di Antonello. La prima volta lo chiamai e c’era sotto la sua musica, portò fortuna, vincemmo. “Ogni volta che parti, mi devi telefonare”, mi disse. Questa cosa l’abbiamo portata avanti per anni».
Lei ha anche allenato la Roma.
«Non l’ho allenata, l’ho traghettata. Nel 2005, il giorno del mio compleanno, ero a Cagliari a trovare i nipotini. Mi telefonò Rosella Sensi. E mi disse: “Abbiamo fatto una riunione e abbiamo pensato a te per guidare la Roma”. Ho capito cosa dovevo fare in quel momento. Ma è stato un anno particolare, ci siamo salvati a Bergamo con un gol di Cassano, avevamo davvero paura di retrocedere. E c’è un episodio...».
Be’, raccontiamolo.
«Quell’anno morì il Papa e invitarono tutta la squadra in Vaticano. Convocammo i giocatori per dirglielo. Intervenne Cassano: “Ma è obbligatorio venire?”. Io già un po’ arrabbiato, risposi: “Assolutamente no, se non vuoi venire, non vieni”. Dopo un po’ lui fa: “Però se non vengo non vorrei che poi i giornalisti…”. Non vi posso dire quello che gli ho detto, l’ho rovesciato. Ma con Antonio c’è un affetto profondo, ci vogliamo ancora oggi un bene dell’anima».
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Con Mourinho che rapporto ha avuto?
«La prima volta che l’ho visto ero a Trigoria, stavo fumando una sigaretta con dei dipendenti. José è passato con questa macchinetta, una golf car. Ci ha visto, ci ha superato, poi mi ha riconosciuto: è tornato indietro per abbracciarmi, mi ha detto che mi aveva visto giocare a Lisbona. Abbiamo avuto un bel rapporto, anche se in quel periodo stavo facendo delle terapie. Quando ha avuto quattro giornate di squalifica è venuto in ufficio: “Bruno, mi farebbe molto piacere se potessi essere vicino alla squadra, in questo periodo”. Lo sento spesso, Ancelotti è un amico comune».
Ecco, Ancelotti: ha mai provato a portarlo alla Roma?
«Ma come potevi portarlo via Carlo dalle società dove è stato? Bayern, Chelsea, Real… certo la battuta gliel’ho fatta, anche l’ultima volta: “Dici sempre che sei della Roma, ma quando vieni ad allenarla?”».
Ci riproverà, a breve?
«Eh, adesso è al Real Madrid, oltre la battutina è difficile andare. Anche se con Carlo ho proprio un rapporto di famiglia. Sono stato a casa sua, con il papà, la mamma, prima di andare in Nazionale ho dormito da lui, siamo stati in vacanza insieme. Quando ha avuto l’infortunio al ginocchio dormivamo nella stessa stanza e mi mettevo sopra questo ginocchio gonfio così per cercare di allungarlo, di stenderlo. È un’amicizia, una di quelle vere».
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