TENETEVI IL MILIONE - LA SOCIETÀ TURCA FENERBAHCE È PRONTA A RICOPRIRE D’ORO (1 MILIONE) PAOLETTA EGONU CHE PERO’ NON SI VUOLE MUOVERE DA CONEGLIANO - IL COMING OUT DOPO L’ARGENTO MONDIALE: “PIANGEVO E LA MIA COMPAGNA MI HA CONSOLATA, MI HA DETTO…” – I BUU RAZZISTI: "LA COSA CHE MI DÀ PIÙ FASTIDIO È LA DISCRIMINAZIONE CHE VIENE DALLE PERSONE POTENTI" – IL NO AI TATUAGGI: “PREFERISCO RESTARE PURA. IL CORPO ME L'HA DATO IN PRESTITO IL SIGNORE” - I COMPLIMENTI DI MATTARELLA – VIDEO
Stefano Semeraro per “Specchio - La Stampa”
I viaggi da fare Paola se li sceglie da sola. Ad esempio ogni due anni in Nigeria, a Lgos, per accarezzare le sue radici e salutare i nonni e le cugine. O in Inghilterra, a trovare la sua famiglia che da tempo a Manchester. Istanbul è una città bellissima, una delle più belle del mondo, e per chi si guadagna da vivere alzando e picchiando palloni è anche una città molto ricca, con tre squadre molto forti - Fenerbahce, Vakifbank ed Eczacibasi - che da tempo dominano in Europa e nel mondo.
Tanto ricca da offrire a Paola, che di cognome fa Egonu ed è oggi forse la più forte pallavolista del pianeta, di mestiere schiacciatrice, un contratto da un milione di euro. Poco, se confrontato con le cifre che circolano dove la palla è più grande e la colpisci con i piedi. Il tesoro di Ali Baba per le medie molto più morigerate del volley. A Istanbul però Paola magari andrà da turista, o da avversaria, non indossando la maglia del Fenerbahce.
Meglio restare a Conegliano Veneto, provincia di Treviso, a costruire, arredare e coccolare il sogno mondiale della Imoco, la squadra che in Europa non perde mai, figlia della ambizione e della cocciutaggine da provincia dorata del nord est. Lo ha deciso lei, insieme con Miriam Sylla, in un momento in cui resistere alle certezze, alle sirene di un futuro blindato, non è per niente facile.
Perché Paola, nata a Cittadella 22 anni fa, è una che sa dire no. Meglio: che i suoi sì e i suoi no li sa dire bene, senza farsi influenzare da nessuno, inseguendo i propri desideri. Papà Ambrose prima di arrivare in Italia era camionista a Lagos, mamma Eunice infermiera a Benin City. Lei è nata italiana, anzi «afroitaliana», o «afronigeriana» come si autodefinisce, e ha imparato presto che il razzismo bisogna murarlo come si fa con le veloci sotto rete: anticipando, non lasciando spazi liberi al dubbio.
Quando i suoi si sono trasferiti in Inghilterra aveva 17 anni, ma è rimasta qui «perché canto l'Inno di Mameli, anche se non mi dimentico da dove vengo - ha spiegato -. Mio padre aveva provato a convincermi a seguirli ma io voglio giocarmi qui le possibilità che mi dà la pallavolo. Avere più culture ti fa comunque più ricca, io mi sento a mio agio a Milano come a Manchester, a Lagos come ad Abuja».
Un altro no meditato, che ha dato frutti. Quattro anni con il Club Ita lia di Roma, dal 2013 al 2017, con il record di punti in un solo match, 46, quando aveva 18 anni. Poi i tre all'Agii di Novara, una delle cattedrali del volley italiano, e due anni fa il trasferimento a Conegliano, alla corte di un altro baby prodigio, coach Daniele Santarelli.
In mezzo tre coppe Italia, una Champions League vinta a Novara, i mille premi come migliore giocatrice, un bronzo europeo e un argento mondiale con la nazionale del mago Bonitta nel 2018. Da star della squadra, ragazza-tigre dai cromosomi Yoruba - l'etnia di Lagos -capace di piegarsi come un arco bruno e scoccare traiettorie imprendibili per le avversarie. Proprio dopo quell'acuto, che lei, vincente per natura, aveva invece vissuto come una stecca, un successo mancato, è arrivato il coming out sulla sua sessualità.
Ad aiutarla quando si sentiva persa, nonostante la medaglia al collo, è stata Katarzyna Skorupa. Una collega, la sua compagna. Attorno c'erano il Giappone e i festeggiamenti larghi per un traguardo che l'Italia non raggiungeva dal 2002. «Ma io sono tornata in albergo e ho chiamato la mia fidanzata», spiegò allora al Corriere della Sera. «Piangevo e lei mi ha consolata, mi ha detto che le sconfitte fanno male, ma sono lezioni che vanno imparate. E che ci avrei sofferto, però, poi, sarei stata meglio».
Una frase semplice, un gesto complicato per un mondo, lo sport, e per un paese, l'Italia, che l'omosessualità nonostante i molti passi in avanti fatica ancora a maneggiarla, ad accettarla. A considerarla, come dice Paola, «una cosa normale». Un altro no detto in faccia alla banalità dei pregiudizi, alle parole sussurrate dietro le spalle, magari insieme all'applauso per una schiacciata, da chi nei confronti dei campioni ha l'atteggiamento bipolare che tanti anni fa Spike Lee spiegò al mondo usando il volto di John Turturro in Fai la cosa giusta.
A infilare Paola nella storia della pallavolo è stato papà,. dopo i compiti invece di sdraiarsi sul divano scoprì che le piaceva schiacciare e murare. A 13 anni il momento più duro, l'addio a casa, a papà, alla sorella e al fratello per trasferirsi a Roma. Al Club Italia, la squadra della federazione, per iniziare a vincere coppe, medaglie e trofei a livello giovanile. E affrontare i buuu sporchi di insulti razzisti nei palazzetti - i genitori delle avversarie che le facevano il verso della scimmia - anche se il dito puntato addosso se l'era già trovato a scuola, da parte di qualche maestra incapace di vedere la stessa umanità sotto colori diversi della pelle.
«Mi è capitato. È normale, anche se non dovrebbe esserlo. Ma la cosa che mi dà più fastidio è la discriminazione che viene dalle persone potenti». Da ragazzina «instabile, volubile, simpatica, pazza, permalosa», come si è descritta una volta, è riuscita a traslocare l'Italia alle Olimpiadi di Rio e a far innamorare l'Italia di una nazionale multietnica e splendente - fatta oltre che di Paoletta', come la chiama Andrea Lucchetta, anche di Sylla e Sylvia Nwakalor, della «bulgara» Malinov e del-la «tedesca» Fahr - guadagnandosi persino i complimenti del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che l'ha indicata come un esempio per il paese futuro: quello in cui tutti vorremmo vivere, ricco di colori e povero di stupidità.
Una giovane donna che dai suoi 189 centimetri sa decollare fino a quota 333 per schiacciare palle imprendibili, che mentre si trasformava in una delle grandi atlete del pianeta ha trovato anche il tempo per diplomarsi in ragioneria e prima o poi si prenderà anche una laurea (in Giurisprudenza). Che adora l'hip hop, Serena Williams e Michelle Obama.
Che cita Mandela ma ha piantato a metà la biografia di Andre Agassi, il bestseller Open, perché non sopportava la resa alla droga di un fuoriclasse come lui. Quando ha compiuto 22 anni, lo scorso dicembre, la sua compagna di squadra, la sua gemella diversa Miriam Sylla le ha dedicato un post che è un inno disincantato all'amicizia: «Ho incontrato un'altra Wonder woman nel mio cammino: alta, magra, pelle color ebano, sguardo penetrante e labbra carnose. È bella, bellissima. Ed è abbastanza. Sa volare e fare tanto male. È lunatica, permalosa, gelosa e sa essere anche stronza. Ma quando sai abbattere i sui muri e lei decide di abbassare il suo scudo, ti si apre un mondo: il mondo di Paola Egonu.
Una roba tutta sua, che però ti fa sorridere, ti fa sentire apprezzato e al sicuro. Non ho ancora capito tutto di questo mondo fatato, ma ci sto da Dio. Tanti auguri secca, ti voglio bene e per te ci sarò sempre».
Del resto Paola ha sempre ammesso di essere stata «strutturata» dalla comunità dei suoi affetti, dal rapporto quasi simbiotico con la madre, dalla grande famiglia che a Lagos viveva in una casa a cinque piani e che nella versione allargata comprende tredici zii, fra i quali anche una zia suora in Vaticano, e il nonno che ancora oggi brontola perché la vede indossare pantaloncini troppo corti.
In compenso nonno non dovrà rampognarla per qualche tatuaggio eccessivo: Paola non ne ha, non ne vuole. «Preferisco rimanere pura», dice con un'eco di spiritualità che rimbalza fra universi religiosi diversi e profondi. «Il corpo me l'ha dato in prestito il Signore, tatuarlo sarebbe rovinare il dono che mi ha fatto».
«Paoletta», che ha il sorriso dolce ma la sana ferocia (verso se stessa e gli altri) di chi sa quello che vuole; che il razzismo light che ancora circola in Italia se lo lascia scivolare addosso quando cammina, ma poi lo schiaccia insieme al pallone sul rettangolo di gioco - anche stavolta ha deciso da sola.
Istanbul è ricca, molto bella, ma anche -azzardiamo - governata da chi la diversità e il coraggio non sa accettarli con serenità. Meglio Conegliano, meglio non accettare compromessi, meglio sentirsi libera di volare attorno ai destini e ai progetti che sente suoi: la pallavolo e un mondo da abitare senza dover chiedere permesso a nessuno.