TRA ARTE E CINEMA. CI HA LASCIATO RENATO MAMBOR PROTAGONISTA DEL POP ROMANO MA ANCHE ATTORE DEGLI SPAGHETTI WESTERN. ECCOLO IN UN RICORDO DI ARIANNA DI GENOVA E MARCO GIUSTI ( VIDEO E GALLERY)
Arianna Di Genova per il Manifesto
Renato Mambor, uno dei protagonisti della ricerca nelle arti visive fin dagli anni ’50, è morto a 78 anni, poco dopo il suo compleanno (era nato il 4 dicembre 1936).
Romano, spirito poliedrico, artista, protagonista di una felice stagione teatrale di sperimentazioni, performer, cineasta, fotografo e taumaturgo, aveva creato un doppio di sé per affacciarsi alle porte del mondo: l’osservatore, quella sagoma che si stagliava contro l’orizzonte per guardare lontano, oltre la realtà. Compagno di strada di Pascali, Ceroli, Schifano, Festa, Kounellis, con cui aveva fatto parte di quella che storicamente venne definita Scuola di Piazza del Popolo, Mambor concepì ogni suo quadro come un frame di una lunga sequenza cinematografica.
Lui, che disattivò l’«umanità, massificandolo una volta per tutte, raccontava con passione di non riuscire a pensare che per frammenti. E’ sempre stato convinto che — pur togliendo «l’io dal quadro», vanificandolo in stampi, tracce, sagome, perimetri di ritratti senza più corpo, qualcosa in fondo restasse sempre: la vita relazionale di ogni individuo.
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Quell’imprescindibile essere immersi in una rete, in un flusso di percezioni, sensazioni, anime, mondi che si compenetrano: in questo, Mambor aveva precorso i tempi. Attraverso la potenza della realtà, del suo dispiegarsi attraverso dati sensibili, rimetteva al centro l’apertura comportamentale dell’«osservatore», un personaggio che appariva di lato, quasi fuori inquadratura, meditabondo testimone di ciò che avveniva al di là.
Le sue silhouettes, grandi quanto un qualsiasi (anonimo) adulto – ombre, campionature i tipologie — venivano «fornite» ognuna di un particolare ambiente, il suo ‘sfondo’, che finiva per essere poi il luogo che legava insieme le persone. «Siamo troppo pieni di noi — affermava Mambor — troppo irremovibili, ‘piantati’ dentro i nostri punti di vista. Difficilmente riusciamo ad accettare l’altro… E’ come se fossimo un arcipelago di tante isole ancorate alla stessa terra. 0, per fare un altro esempio, come dita di una mano che, a pugno chiuso, diventano una unità».
Pop, seriale, eppure profondamente mistico, Mambor aveva fondato il suo percorso filosofico sulla spersonalizzazione, affrontando criticamente il consumismo, la voracità della società dello spettacolo„ popolando gallerie e musei con i suoi uomini calco, una segnaletica provocatoria e inquietante di una umanità in cerca di autore
Marco Giusti per Dagospia
Renato Mambor attore in uno spaghetti western
“A quel tempo sembravo Gary Cooper”, mi disse Renato Mambor quando l’ho intervistato sulla sua piccola e nascosta carriera di attore. Ruoli piccoli e medi, di solito di bel ragazzo o di cattivo nel nostro western. Un po’ per scherzo e un po’ per guadagnare. Li fece anche Pino Pascali, suo amico storico.
E, ovviamente, li faceva la sua compagna del tempo, Paola Pitagora, che divenne poi una vera attrice. Per Mambor fu non più che un gioco. Lo troviamo tra la fine del 1959 e il 1960 in I ragazzi del Juke Box, Urlatori alla sbarra, Il rossetto di Damiano Damiani, dove fa Vincenzo il garzone, e, ovviamente visto che c’era mezza Roma, ne La dolce vita di Federico Fellini.
Ma lui ricordava come sua prima apparizione quella accanto a Walter Chiari e Ugo Tognazzi in Un dollaro di fifa di Giorgio Simonelli. “Io facevo un po’ il doppio di Walter Chiari. In realtà ero il cattivo. Mi sono accorto abbastanza presto di essere entrato in un mondo di pazzi scatenati. Chiari e Tognazzi urlavano dalla mattina alla sera, per loro non c’era divisione tra lo spazio scenico e lo spazio della vita. Ricordo che lo abbiamo girato a Cinecittà, anche da qualche parte vicino al mare. Con Emo Bistolfi devo aver girato un altro paio di film”.
Nello spaghetti western fu parecchio in luce. Lo ritroviamo in Un uomo, un cavallo, una pistola di Luigi Vanzi, nel ruolo di Alvarez, in Il figlio di Django di Osvaldo Civirani, come Clint Sullivan, in Se vuoi vivere, spara! di Sergio Garrone, nel ruolo di Dick Logan, in Due once di piombo, in una scena di La resa dei conti di Sergio Sollima. Probabilmente ne fece anche altri, ma di questi se ne ricordava bene.
Lo troviamo anche in molti altri film, Il sepolcro dei re, il bellissimo Laura nuda di Nicolò Ferrari con Georgia Moll, L’ammutinamento di Silvio Amadio, La bellezza di Ippolita,Obiettivo ragazze, La donnaccia di Silvio Siano, Il disordine di Franco Brusati, Una storia di notte di Luigi Petrini.
Tutti degli anni ’60, più o meno buoni. Poi venne rapito interamente dal mondo dell’arte. Lo ritroviamo come Mario il barista in Tobia al caffè di Gianfranco Mingozzi, molti anni dopo, nel 2000.