LA CONSOB E’ COSA SUA: IL POTERE SMISURATO DI VEGAS SULL’ECONOMIA ITALIANA

Vittorio Malagutti e Luca Piana per "l'Espresso"

L'ultima volta se l'è presa con la «dittatura dello spread», «l'assalto della speculazione», «la crisi che fa vacillare le nostre certezze». E già che c'era, Giuseppe Vegas non si è fatto mancare neppure la citazione classica, di Epitteto: «Quel che turba gli uomini non sono le cose, bensì i giudizi che essi formulano intorno alle cose». Il presidente della Consob, fine giurista e politico con il pallino dei bilanci pubblici, ama volare alto.

E le belle parole non mancheranno di certo neppure lunedì 6 maggio, quando autorità, banchieri e imprenditori torneranno a incontrarsi a Milano, nel palazzo della Borsa, per ascoltare l'annuale relazione sull'attività della Commissione di controllo sui mercati finanziari.

Solo che questa volta, giunto ormai al suo terzo anno da numero uno, il navigato Vegas, già viceministro dell'Economia con Giulio Tremonti, è costretto a presentare un bilancio con molte certezze in meno e un imbarazzo in più. Un imbarazzo pesante, grande quanto il Monte dei Paschi. Perché, per quanti sforzi faccia il presidente per riaffermare la correttezza dell'operato dell'Authority, il suo mandato alla Consob verrà per sempre associato al disastro di Siena.

In effetti, non è facile spiegare come mai la Commissione abbia informato il mercato solo nell'autunno del 2012, ben 16 mesi dopo aver ricevuto il primo dettagliato esposto sulle spericolate operazioni della banda di affaristi senesi.

Il fatto è che la Consob, anche nell'era Vegas, pare non abbia perso il vecchio vizio di chiudere la stalla quando i buoi sono scappati da un pezzo. È successo con la Parmalat. Poi con la Popolare Lodi di Gianpiero Fiorani. E in diverse altre occasioni. La maxi multa (5 milioni) a Salvatore Ligresti per i suoi trust ai Caraibi è arrivata il 5 aprile, quando l'esistenza di quelle holding offshore era nota da almeno un decennio.

Eppure, giusto dodici mesi fa, davanti alla platea di vip tra cui il presidente Giorgio Napolitano e il governatore di Banca d'Italia, Ignazio Visco, Vegas aveva scandito con chiarezza la nuova strategia della Commissione: «Concentrare l'azione repressiva» sulle condotte illecite «più rilevanti» e «riconsiderare l'entità» delle sanzioni per le violazioni «di minore gravità».

Parole chiare, chiarissime. Come dire: bisogna puntare ai bersagli grossi senza sprecare troppe energie con i pesci piccoli. E allora quali saranno i bersagli grossi? Forse le società di rating, gli Etf, l'High frequency trading (cioè gli scambi computerizzati ad altissima velocità) solo per citare alcuni dei temi a cui Vegas, a giudicare dalle sue esternazioni, sembra più affezionato. Tutte questioni, però, che si decidono nel mare magnum della finanza globale. E la Consob può far poco, quasi niente.

Ma Vegas è fatto così. È un tecnico con la passione della politica. E proprio non riesce a non dire la sua anche su questioni che non sono di stretta competenza di chi dovrebbe limitarsi a sorvegliare il corretto funzionamento dei mercati. Il debito pubblico e il rischio fallimento dell'Italia, la liquidità delle banche e lo shopping straniero di aziende nostrane. Su questi temi, e altri ancora, il presidente della Consob si è conquistato spazi e titoloni sui giornali.

Un bersaglio grosso, forse il più grosso di tutti, era il Monte dei Paschi. Ma quando è stato chiamato in causa in una vicenda così scottante l'ex politico di osservanza berlusconiana catapultato al vertice dell'Authority finanziaria si è messo subito sulla difensiva. Costretto a giustificare ritardi e omissioni nell'intervento della Consob.

La sua versione l'ha raccontata lo stesso Vegas in un'intervista al quotidiano "il Messaggero" del 30 gennaio scorso. Ha detto di aver avviato gli accertamenti subito dopo l'esposto anonimo, datato 2 agosto 2011. E di aver chiesto aiuto alla Banca d'Italia. Il presidente dell'Authority si è anche attribuito il merito di aver fatto le pressioni necessarie perché il Monte cominciasse a svelare le perdite potenziali sui derivati. Cosa che è avvenuta, in modo ancora una volta molto parziale, solo il 28 novembre 2012: un anno e quattro mesi dopo la denuncia anonima.

L'autodifesa è stata accolta però da molte critiche. E la Federconsumatori, un'associazione di tutela dei risparmiatori, ha anche fatto un esposto alle Procure di Siena e Roma, mettendo nero su bianco una lunga serie di accuse. Una su tutte: invece di rivolgersi alla Banca d'Italia, Vegas avrebbe dovuto muoversi in prima persona, visto che la Consob ha poteri di polizia giudiziaria negati alla banca centrale.

E ancora: della denuncia anonima si sono occupati ben quattro divisioni interne, oltre al presidente e al direttore generale. Non è invece stato mai coinvolto l'Ufficio Analisi Quantitative, che all'epoca aveva la competenza sui derivati e che solo in seguito è stato depotenziato da Vegas. Per inciso: si tratta dello stesso ufficio al centro della questione sollevata dai derivati della Banca Popolare di Milano, di cui si parla nell'intervista qui sotto.
A proposito di pesci grossi, Vegas non si è tirato indietro neppure di fronte alla Fiat.

La Consob ha tagliato la strada nientemeno che a Sergio Marchionne. Il guaio, per l'ex viceministro di Tremonti, è che la Commissione si è mossa ben due volte in un modo giudicato poco appropriato da molti osservatori. Per di più entrambi gli interventi, svelati al pubblico da indiscrezioni giornalistiche precise fin nei particolari, non hanno avuto esiti concreti. Il primo caso nasce nell'ottobre del 2011.

Sui giornali trapela una notizia bomba: la Consob è scesa in campo sul piano industriale della Fiat e sta incalzando il gruppo del Lingotto perché faccia chiarezza sul piano "Fabbrica Italia". Per l'opinione pubblica è un tema a dir poco caldo. Un anno prima Marchionne aveva annunciato il progetto di investire 20 miliardi di euro per rilanciare la produzione di auto negli impianti del gruppo; già qualche mese dopo, tuttavia, erano nati i primi dubbi sulle reali intenzioni del manager italo-canadese, che nel frattempo aveva spostato in Serbia la produzione della "500L", prevista a Mirafiori.

Dove la Fiat faccia i propri investimenti è certamente una questione politica e di rapporti con le forze sociali, oltre che industriale. Ma è quanto meno dubbio che l'ubicazione degli impianti e le modalità degli investimenti siano rilevanti per la veridicità del bilancio. Tema quest'ultimo di diretta competenza della Consob.

Dopo l'estemporaneo intervento degli ispettori di Vegas, passano alcuni mesi di calma apparente. Ma Marchionne non rinuncia a cavalcare la situazione. Nel settembre 2012 racconta di aver ricevuto in pochi mesi ben 19 lettere dalla Consob, nelle quali «si chiedevano i dettagli finanziari e tecnici di Fabbrica Italia». Il manager sostiene di aver ritirato il piano «per esasperazione» e che non intende più fornire informazioni sull'entità e sui tempi degli investimenti.

La reazione di Marchionne può apparire pretestuosa, visto che lo scontro sui progetti di sviluppo del gruppo coinvolge sindacati e politici, più che la Consob. In qualche modo, però, il capo della Fiat sembra aver colto nel segno, visto che fin da subito Vegas è stato costretto a salvarsi in corner, spiegando che l'azienda ha infine reso noti i dati chiesti dalla Consob con una semplice «disclosure» al mercato. Nessuna risposta diretta alle 19 lettere della commissione. Ma per Vegas «va bene così».

Passano poche settimane e con Torino scoppia un'altra grana. Su un quotidiano compare una nuova indiscrezione: la Consob sta indagando per capire se i 20 miliardi di euro di liquidità che la Fiat vanta in bilancio sono reali. Qui il punto è certamente d'interesse per l'autorità, che ha il compito di vigilare sui conti di un'azienda quotata.

La reazione di Marchionne è furente: «Qualsiasi insinuazione sul fatto che non disporremmo della liquidità dichiarata è falsa e come tale sarà trattata». Spazzare il campo da qualsiasi dubbio è un obbligo: il titolo Fiat in Borsa quel giorno perde il 4 per cento. E ci verranno tre mesi prima che un altro articolo di giornale riveli l'esito degli accertamenti: «Sui conti correnti dell'azienda ci sono effettivamente 20 miliardi, come da bilancio». Insomma, molto rumore per nulla. O quasi.

Vegas ha cercato di governare da politico anche il caso spinoso del salvataggio della Fonsai di Ligresti. Nel gennaio del 2012, quando si pone la questione dell'obbligatorietà dell'Opa sull'intera catena di controllo del gruppo assicurativo, il presidente della Consob veste gli inediti panni del consulente di mercato. E in una riunione che doveva restare segreta con il numero uno di Mediobanca, Alberto Nagel, e il capo dell'Unipol, Carlo Cimbri, spiega ai due cavalieri bianchi le mosse giuste per completare l'operazione senza che la Consob sia costretta a imporre un'onerosa offerta pubblica d'acquisto.

L'iniziativa di Vegas è senza precedenti. E lo è anche la reazione di uno dei commissari, Michele Pezzinga. Che, intervistato da un quotidiano, arriva a definire l'intervento del suo presidente «del tutto irrituale e non so quanto legittimo».

Non era mai successo. Per la prima volta la commissione lava in pubblico i panni sporchi. Ma Vegas ormai non teme la fronda interna. Qualche mese più tardi, interpellato dai deputati della Commissione Finanze, non ha remore a rivendicare il suo ruolo da consulente: «Se qualcuno mi chiede di conoscere un orientamento, mi sembra assolutamente corretto rispondere». In altre parole: la Consob sono io. Può ben dirlo, perché in meno di tre anni di mandato è riuscito a cambiare i connotati alla Consob.

Ne ha fatto un organismo più verticistico e meno collegiale. Dove una pattuglia scelta di burocrati, di assoluta e provata fiducia del numero uno, tiene ben strette le redini del potere. L'operazione ruota attorno alla figura del direttore generale Gaetano Caputi, già vicecapo di gabinetto del ministero dell'Economia, chiamato da Vegas in Consob a costo di tirarsi addosso un'infinità di accuse e di polemiche per i molteplici incarichi (e relativi conflitti d'interessi) che l'alto burocrate di Stato si portava in dote.

Alla fine Caputi, per mettersi in regola con quanto previsto dalla legge, non ha potuto fare a meno di rinunciare alle poltrone pubbliche che continuava a occupare ancora molti mesi dopo la nomina in Consob. Da ultimo, nel marzo scorso, sono arrivate le dimissioni dalla Commissione ministeriale di garanzia per l'attuazione della legge sugli scioperi.

Tra esposti alla magistratura e polemiche, però, Vegas è riuscito a centrare l'obiettivo. Per coordinare le diverse direzioni sono nati una serie di "tavoli" e "aree funzionali". È stato introdotto un ufficio di presidenza, allo scopo (dichiarato) di fare da filtro tra i direttori interni e il vertice della Commissione. Risultato: l'assetto dell'Authority ne è uscito stravolto, concentrando più potere nelle mani di Vegas e del suo fedelissimo Caputi.

Senza contare che la riorganizzazione interna ha innescato una girandola di spostamenti tra i funzionari, che ha visto premiati i sostenitori del nuovo corso. Ma i giochi si decideranno nel giro di pochi mesi. In estate, con l'uscita per fine mandato di Vittorio Conti resteranno in carica solo tre commissari, come vuole la legge taglia spese del governo Monti. A fine anno toccherà anche a Pezzinga, più volte in contrasto con il presidente. E a questo punto Vegas resterà solo al comando.

 

GIUSEPPE VEGASIL PRESIDENTE DELLA CONSOB GIUSEPPE VEGASgiuseppe vegasgiuseppe vegas giuseppe vegas SERGIO MARCHIONNE E MARIO MONTIMUSSARI VIGNI Tremonti Giulio MONTI GRILLI

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