mark lewis attacco pentagono 11 settembre

“C'ERA PUZZA DI CHEROSENE, FIAMME E FUMO OVUNQUE. UN SILENZIO SPETTRALE” – IL COLONNELLO CARL LEWIS, UNO DEI SUPERSTITI DELL’ATTACCO TERRORISTICO AL PENTAGONO DELL’11 SETTEMBRE 2001, RICORDA COSA SUCCESSE SUBITO DOPO - CON UNA T-SHIRT LEGATA SULLA BOCCA PER NON INALARE FUMO, CONDUSSE ALLA CIECA I SUPERSTITI E FERITI FUORI DALL’EDIFICIO: “L'UNICO RIFERIMENTO ERA IL PAVIMENTO, SI POTEVA..."

Alberto Simoni per “La Stampa”

 

MARK LEWIS 3

Lui non si affibbierebbe mai l'etichetta, ma per gli americani Mark Lewis è "un eroe" dell'11 settembre. Di quelli silenziosi, trovatosi in una mattina di sole di 21 anni fa a raccogliere le vite degli altri, travolte, tramortite e recise nell'attacco al Pentagono da parte di Al Qaeda. 

 

Quando ieri, parlando alla cerimonia al Pentagono, il segretario della Difesa Lloyd Austin ha citato i colleghi che hanno portato sulle spalle gli altri, che si sono sostenuti in quel giorno, pensava anche a Lewis. E sugli eroi che «hanno protetto l'America» ha puntato pure Biden sottolineando che «continueremo a difendere gli Usa dal terrorismo» e che quel giorno se «ha cambiato la Storia Usa», non ne ha però alterato il carattere.

 

Veterano della 82esima divisione aviotrasportata, missioni a Granada e in altre zone di crisi, grado di colonnello nel 2001, Mark Lewis siede a capotavola di un tavolo di legno nel suo ufficio nell'E-Ring del Pentagono. Per arrivare nella zona più esclusiva del palazzo-fortezza, si cammina quasi dieci minuti. Sempre scortati.

 

pentagono sotto attacco

In quest' angolo dell'edificio ci sono gli uffici della leadership della super potenza. Da qui, la mattina dell'11 settembre del 2001, l'allora segretario della Difesa, Donald Rumsfeld se ne uscì impolverato, gli occhiali storti sul naso e si mise nel piazzale antistante a muovere soccorsi e aiutare i feriti.

 

Ma prima di lui, lungo i corridoi del secondo piano della facciata occidentale nel cuneo 5, Mark Lewis aveva trasformato l'istinto alla sopravvivenza del soldato in una spinta irrefrenabile all'aiuto degli altri. Ricorda due cose di quel giorno. «Sono freschi nella mia mente il fumo e il fuoco». Il racconto del colonnello tornato al Pentagono con un incarico nella catena di comando civile, però si ferma dopo pochi minuti.

MARK LEWIS 1

 

Serve la scenografia, serve vedere, immaginare quel che fu. «Dove siamo seduti io e lei si conficcò il corpaccione del volo 77». Lewis si alza e si accosta alla finestra, l'aereo passò sopra una collinetta e si buttò dentro il Pentagono. «Sono appena cinque piani, colpirlo così... » sospira lasciando capire quanto quei kamikaze fossero preparati per la missione. Quel giorno Lewis aveva una riunione con il generale Maude, il più alto ufficiale in grado morto l'11 settembre.

 

Era lui ad occupare l'ufficio dove oggi c'è quello dell'ex colonnello, quello di Lewis distava qualche decina di metri. Mentre camminava nel corridoio verso l'appuntamento, arrivò il botto poi il buio e il fuoco.«C'era puzza di cherosene, fiamme e fumo ovunque. Un silenzio spettrale, le porte antincendio si erano chiuse come da procedura». Una trappola per chi era dentro. «L'unico riferimento era il pavimento, si poteva toccare, sentire», ricorda Lewis. 

attacco pentagono 11 settembre 2011

 

Andò a ritroso, recuperò le persone negli uffici, la t-shirt sulla bocca per non inalare fumo. Per aggirare le porte sbarrate, Lewis condusse alla cieca i superstiti, feriti e terrorizzati, lungo un corridoio che portava a una piccola porticina sconosciuta ai più. È diventata la porta per la salvezza. L'aereo si schiantò alle 9,37; 40 minuti dopo Lewis era sul prato del Pentagono fra il frastuono delle sirene, il via vai dei soccorritori.

 

MARK LEWIS 2

L'angoscia però era per chi era rimasto indietro. «Quanti? E Chi? Quale ufficio è vuoto». Prese - e con lui altri - ogni telefono possibile, compose ogni numero per rintracciare dispersi. All'appello non tutti risposero. Durò fino alle due di notte questo straziante rito. Allora Lewis tornò a casa: 125 persone al Pentagono erano morte, 184 in totale contando quelle sull'aereo proiettile.

 

Inutile chiedere se dormì, l'America si era già messa in modalità guerra, le unità operative dovevano avviarsi. «E così si fece, bisogna andare avanti». Per cinque mesi fu così, avanti a far girare la macchina già protesa sull'Afghanistan. 

 

Gli occhi di Lewis diventano lucidi. «Accadde a San Francisco, in hotel, qualche mese dopo. La famiglia a fare shopping, io in camera a guardare la Cnn. Un lungo servizio sugli attentati del 11 settembre». E lì lo strazio, il dolore, la presa di coscienza di quel che era successo scoppiarono fragorosi. Il ricordo degli amici. 

 

impatto boeing sul pentagono

Lewis cammina lungo il corridoio dell'E-Ring. Fuori dal suo nuovo ufficio c'è una mappa del piano e vi è disegnata la traiettoria dell'aereo. A fianco le foto delle vittime di quella sezione. Lewis li conosce quasi tutti: la soldatessa che doveva sposarsi a giorni; l'amico generale e Max Beilke, fu l'ultimo soldato a lasciare il Vietnam. «Great and honest men», brave persone. Qualcuno anche un eroe americano.

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