“L’OBIETTIVO STATUNITENSE NON È DIFENDERE KIEV, MA MANTENERE IL CONTROLLO SULL’EUROPA” - LO STORICO EMMANUEL TODD, AUTORE DEL SAGGIO “LA SCONFITTA DELL’OCCIDENTE”: “LA PACE SAREBBE A PORTATA DI MANO SE GLI EUROPEI RIPRENDESSERO LE REDINI DI UNA DIPLOMAZIA SVINCOLATA DALLA TUTELA AMERICANA” - “LE NOSTRE DEMOCRAZIE LIBERALI SONO GOVERNATE DA ÉLITE IRRESPONSABILI CHE FUNZIONANO COME AGGREGATI ATOMIZZATI, CONTRASSEGNATI DA UN PERICOLOSO VUOTO DI PROSPETTIVE, CHE NON SIANO QUELLE DELLA SEMPLICE RIPRODUZIONE DEL POTERE E DEL DENARO…”
Estratto dell’articolo di Marco Cicala per “il Venerdì di Repubblica”
Demografo, antropologo, storico, Emmanuel Todd ha 73 anni. Quando ne aveva 25 preconizzò in un libro il collasso dell’Unione Sovietica con circa un quindicennio di anticipo e su basi statistiche, tenendo d’occhio in particolare l’aumento della mortalità infantile.
In un saggio del 2007 presagì invece l’imminenza delle cosiddette Primavere arabe (2010-2011). […] Todd non possiede doti divinatorie, ma nemmeno l’algido distacco dell’accademico. Gode casomai della reputazione divisiva di un trublion, un provocatore impenitente.
EMMANUEL TODD - LA SCONFITTA DELL OCCIDENTE
[…] Adesso per non smentirsi Emmanuel Todd ridà fuoco alle polveri con La sconfitta dell’Occidente (Fazi editore), vasto affresco di analisi geopolitica che in patria ha già venduto 80 mila copie, ma gli è valso pure accuse assortite di filoputinismo, antiamericanismo ossessivo, uso tendenzioso dei dati... Di materia da discutere ce n’è. Lo facciamo nella sede delle edizioni Gallimard, che hanno pubblicato il libro in Francia.
Monsieur Todd, l’Occidente è in crisi, o così si autorappresenta, praticamente da quando esiste. E quello del suo declino è un consumato leitmotiv storiografico, filosofico, sociologico. Ora lei assesta un’ulteriore picconata?
«No, mi guardo bene dal prendermi per un novello Spengler (Oswald, filosofo tedesco autore nel 1918 di Il tramonto dell’Occidente, ndr). Non sono ossessionato dall’idea del tramonto, della decadenza o della perduta centralità occidentale. Non sono un “declinista”. Al limite un “declinologo”». […] «[…] lavoro da sempre su elementi empirici, cifre, indicatori sociali, strutture familiari. In questo caso prendo le mosse dalla guerra in Ucraina per cercare di capire la fase che stiamo attraversando e dove rischia di portarci. Il libro è meno una riflessione sull’Est che sull’Ovest e i suoi accecamenti».
In apertura scrive che una delle sorprese del conflitto «è stata la stabilità della Russia». Eppure all’inizio le cose non sono andate secondo i programmi: la “Blitzkrieg” tentata dal Cremlino è stata un fiasco, potenzialmente destabilizzante per Mosca. E da oltre due anni ci ritroviamo nel pantano di una guerra di logoramento.
«Inizialmente la Russia ha sottovalutato l’avversario. Ma in questi due anni ha aggiustato il tiro, ha saputo correggere la propria dottrina militare, dando prova di adattabilità strategico-tattica e di una notevole compattezza […]. L’economia russa […] è stata di fatto rilanciata dalla guerra. Fallimentari sono state in compenso le sanzioni occidentali contro Mosca».
«Democrazia autoritaria»: la sua definizione del regime putiniano suona perlomeno osé. Che formalmente in Russia si continui a votare basta per farne una democrazia seppure sui generis?
«Non contesto che sotto Putin le elezioni siano ragionevolmente truccate, né che in Russia la redistribuzione delle ricchezze sia diseguale come negli Stati Uniti e maggiore che in Europa occidentale. È il lascito delle privatizzazioni selvagge dilagate nel post-comunismo.
vladimir puntin giuramento per il quinto mandato
Allo stesso tempo però in Russia assistiamo oggi a un abbassamento della disoccupazione e a un miglioramento complessivo del tenore di vita. Elementi che hanno consolidato il consenso popolare di Putin. A essergli ostili sono le classi superiori concentrate nelle grandi città, Mosca e San Pietroburgo. Quella che chiamo “democrazia autoritaria” ha operato una messa in riga degli oligarchi, un assoggettamento che si è realizzato con la violenza…».
[…] veniamo al nucleo del libro: un’analisi che, pur articolandosi su dati empirici, approda a una diagnosi antropologica della crisi occidentale dalle tinte se non apocalittiche diciamo assai fosche. Alla radice, lei sostiene, ci sarebbe l’evaporazione del protestantesimo e del suo sistema di valori…
«Ispirandomi alle teorie esposte da Max Weber nel famoso saggio del 1905 L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, ho cercato di svilupparle mettendole alla prova della contemporaneità politica, economica, sociale, culturale dell’Occidente. Sintetizzando: Weber scorgeva nella religione di Lutero, ma soprattutto di Calvino, il propellente dell’ascesa e del dominio occidentali...».
Di quale Occidente parliamo?
«Stati Uniti, Inghilterra, Germania, Scandinavia. Più la Francia che, seppur storicamente a dominante cattolica, si è giocoforza ritrovata agganciata a quel gruppo di testa».
In che modo il protestantesimo si è rivelato strutturante per il modello liberal-capitalistico occidentale?
«Lo è stato sotto molteplici aspetti. Innanzitutto quello educativo. Con la traduzione della Bibbia in tedesco il luteranesimo avvicina i fedeli alle Sacre Scritture senza la mediazione del clero. È l’embrione dell’alfabetizzazione di massa. Ma, nel quadro del predominio occidentale, protestantesimo significava anche etica del lavoro, della responsabilità, della disciplina sociale, del sacrificio per la collettività.
Quel paradigma non era privo di risvolti negativi, la rigidità puritana, un’idea dell’elezione divina che predisponeva le élite a un senso di superiorità morale, culturale, razziale. E tuttavia l’impostazione di matrice religiosa esprimeva una visione aggregante della vita collettiva, della società, pensava ancora in termini di futuro, prospettive, progetti».
Sennonché?
«Come nel cattolicesimo, anche nell’universo protestante si è prodotto un processo degenerativo che nel libro ho schematizzato in tre fasi: il passaggio da un “protestantesimo attivo” […] a un “protestantesimo zombie”, cioè affievolito nel culto ma ancora persistente nella morale e nel rispetto formale dei riti: battesimo, matrimonio, sepoltura. Per arrivare infine all’attuale “protestantesimo zero”».
Un grado zero che insieme alla religione vedrebbe dissolti anche i suoi valori secolarizzati, laicizzati.
«La fase “zombie”, o se vuole post-religiosa, era connotata da forti credenze sostitutive, da ideologie politiche che configuravano gli individui nei loro rapporti con la Nazione, la società, il lavoro, nei loro comportamenti familiari, sessuali, così come nei gusti o nell’uso del denaro.
Sulla vita delle persone incideva un Super-Io collettivo, un sistema normativo di modelli, divieti, controlli che però non si riduceva a una funzione coercitiva. Il concetto di Super-Io racchiudeva anche l’ideale di un Io capace di elevarsi, spingersi al di sopra dei propri desideri immediati, di migliorare, pensarsi come parte di una collettività. La liberazione dal Super-Io si è dimostrata una diminuzione, non ha fatto crescere l’individuo, ma lo ha atrofizzato, isolato, atomizzato».
Andiamo, l’egoismo sociale è vecchio come il mondo. Perché imputarlo alla contemporaneità?
«Non si tratta di un giudizio morale. Sarebbe folle negare le conquiste occidentali in fatto di emancipazione, diritti, integrazione sociale. Gli uomini non sono più cattivi che in altre epoche. Nel complesso sono più civili.
Ma la mia constatazione è un’altra, riguarda le classi dirigenti dell’Occidente egemone, principalmente angloamericano. Le nostre democrazie liberali stanno diventando oligarchie liberali, sistemi governati da élite irresponsabili che, a riflesso delle società individualistiche, funzionano come aggregati atomizzati, autoreferenziali, contrassegnati da un pericoloso vuoto di pensiero, di idee, di prospettive che non siano quelle della semplice riproduzione del potere e del denaro».
Per riassumere questo vuoto lei recupera la nozione di nichilismo. Ammesso che si sia mai fatto da parte, come lo vede rifiorire nel XXI secolo?
«Essenzialmente sotto forma di negazione della realtà e di pulsione distruttiva».
Che cosa sta distruggendo?
«I servizi pubblici, le classi medie, l’industria: smantellata, delocalizzata. In fondo, la globalizzazione all’americana ha minato l’egemonia economica dell’America stessa.
Intendiamoci, gli Stati Uniti hanno raggiunto l’autonomia energetica e sono il secondo esportatore mondiale di gas dopo la Russia. La Silicon Valley e le cosiddette Gafam – Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft – hanno capitanato la rivoluzione digitale.
Eppure quella della superpotenza americana è oggi un’economia in gran parte fittizia, largamente dipendente dal resto del mondo, con un deficit commerciale che continua ad aggravarsi.
Nel 1928, la produzione industriale statunitense rappresentava il 44, 8 per cento di quella mondiale. Nel 2019, era scesa al 19, 8 per cento. A chi mi accusa di antiamericanismo rispondo con qualche domanda d’allarme: come si può restare i padroni del mondo senza un apparato industriale? Come si può costruire una società vivibile sradicandone la componente produttiva? Quanto può durare questa fuga in avanti? Quello statunitense è un declino irreversibile?».
Gli indicatori che lei riporta sono poderosamente ansiogeni.
«In America il livello educativo decresce. È sintomatico che con una popolazione due volte superiore, gli Stati Uniti producano oggi 30 per cento di ingegneri in meno che la Russia. Abbondano in compenso avvocati e commercialisti. Lo stesso tasso di mortalità infantile americano è ormai superiore a quello russo. Ma, tornando alla guerra, l’incapacità statunitense nel rifornire l’Ucraina di proiettili da 155 millimetri, standard della Nato, non è forse il segnale di come la crisi dell’economia americana abbia afferrato anche il suo comparto militare-industriale?».
I movimenti “woke” hanno qualche rapporto con questa crisi?
«Sono un prodotto del nichilismo. Il dibattito sui costumi è diventato materia di politica internazionale. L’Occidente ritiene arretrati tutti i Paesi ostili all’ideologia Lgbtq+. La questione dei diritti non c’entra. Che l’uguaglianza di genere sia una rivendicazione sacrosanta mi sembra un’ovvietà. Ma l’idea di riorganizzare l’intera vita sociale sulla base delle scelte sessuali è follia».
Nella questione transgender lei vede una negazione della realtà.
«Gli individui possono fare dei loro corpi ciò che vogliono. Ma che non si possa trasformare un uomo in una donna o viceversa è una realtà genetica. Sostenere il contrario significa affermare il falso. […]».
Il “boom” evangelico sembra contraddire il suo referto sulla perdizione del protestantesimo.
«Non direi. Il peso politico dell’evangelismo è stato sopravvalutato. Ideologicamente gli evangelici sono portatori di una cultura regressiva, antiscientifica, narcisistica che ha poco a che fare col vecchio protestantesimo luterano o calvinista, il quale combinava rigorismo e progressismo. Quello dell’evangelismo non è un Dio esigente, ma molto alla mano. Un Dio che ammicca ai credenti e promette di premiarli con bonus psicologici e materiali».
Che cosa dobbiamo aspettarci dall’esito delle elezioni statunitensi?
«Credo che Putin se ne infischi di chi vincerà le presidenziali americane. Di Trump già sappiamo tutto, quanto a Kamala Harris mi pare in perfetta continuità con l’amministrazione Biden, con la sua debolezza, la sua mancanza di prospettive, il suo bellicismo».
L’accesso al potere delle cosiddette comunità Bame – Black, Asian and Minority Ethnic – non ha comportato secondo lei un rinnovamento di idee?
«Barack Obama è stato l’ultimo dei presidenti americani responsabili, un politico intelligente e con un profilo morale. Il superamento del differenzialismo etnico è un fenomeno formidabile. Ma se mi chiede se le nuove classi dirigenti Bame abbiano introdotto valori comuni positivi capaci di imprimere una nuova direzione alle politiche occidentali, la mia risposta è: finora no. Ha prevalso il conformismo».
A cosa?
«Alla dottrina neoliberale».
Rieccola. Non ce ne libereremo mai?
«In fondo, con la volontà di potenza di una razionalità economica che si pretendeva superiore, il neoliberalismo recava già negli anni Ottanta tratti nichilisti. La famosa formula dell’economista Schumpeter secondo cui il capitalismo sarebbe una forma di “distruzione creatrice” è divenuta un mantra. La distruzione di fabbriche, professionalità, vite, ha prevalso sulla creazione. L’altrettanto famosa frase di Margaret Thatcher, peraltro una donna onesta, “la società non esiste” non era forse un concentrato di nichilismo?».
Lei rifiuta l’epiteto di “reazionario”, ma come si definirebbe?
«Se proprio dovessi, un conservatore di gauche. E un demografo praticante: ho quattro figli e nove nipoti. Il che mi rende un pericoloso natalista di sinistra!».
Alle ultime elezioni francesi per chi ha votato?
«Per il Nuovo Fronte Popolare».
La sconfitta dell’Occidente rischia di diventare un libro di culto per l’intellighenzia putiniana.
«Abbiamo assistito a un fenomeno curioso: in epoca comunista Mosca era la Mecca di rivoluzionari e proletari d’Occidente, mentre adesso seduce i conservatori. E forse quel che resta delle classi operaie occidentali. Classi a mio avviso più conservatrici che populiste o di estrema destra».
[… Paradossi a parte, intravede una via d’uscita?
«L’obiettivo statunitense non è difendere l’Ucraina, ma mantenere il controllo sull’Europa. La pace sarebbe a portata di mano se gli europei – Germania, Francia, Italia – riprendessero le redini di una diplomazia svincolata dalla tutela americana. Una prospettiva, allo stato, del tutto astratta». […]