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GIÙ LE MANI DELLA PAUSA CAFFÈ - CELEBRATA AL CINEMA E DAI CANTAUTORI, È FINITA ANCHE IN TRIBUNALE, PER LA FUGA DI DUE DIPENDENTI COMUNALI. I GIUDICI IN PRIMO GRADO E IN APPELLO HANNO CONFERMATO IL REATO DI FALSA ATTESTAZIONE DELLA PRESENZA, SOFFERMANDOSI SULLA FUTILITÀ DEI MOTIVI DELLE "FUGHE" DALL'UFFICIO. MA LA CASSAZIONE HA CORRETTO IL TIRO, PRONUNCIANDOSI DI RECENTE, PERCHÉ...

Lara Loreti per “La Stampa

 

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Quattro minuti e 45 secondi. Tanto impiega Eduardo De Filippo nella sua commedia capolavoro Questi fantasmi! a illustrare l'esegesi della pausa caffè. Più o meno il tempo che ci vuole a entrare in un bar o infilare la chiavetta nella macchinetta che distribuisce bevande negli uffici, e sorseggiare quel liquido «color manto di monaco» che si esalta nella ceramica, gongola nel vetro e non dispiace nemmeno nel bicchierino di plastica.

 

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Meno di cinque minuti... È dovuto anche a questo il successo della pausa caffè, amata dai cantanti, celebrata al cinema: si può onorare più o meno sempre, sa essere veloce e poco impegnativa quanto rilassante e ristoratrice. «Fonte di creatività», come dice alla Stampa Paolo Crepet, psichiatra, sociologo ed educatore.

 

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Poi, spesso, succede che in quel bar sotto casa, dove vai tutte le mattine, o in quello a due passi dall'ufficio che col caffè serve anche una spolverata di cioccolata, o nel corridoio accanto alla scrivania si incontri il vicino, l'amico, la collega. A volte un personaggio famoso.

 

Allora la pausa caffè diventa occasione di confronto, scambio affettuoso, battuta ironica, selfie col vip. E non sarà un caso che molto spesso quella «tazzulella 'e cafè» - cantata e decantata da Pino Daniele - sia anche il pretesto per un primo abboccamento, quella proposta un po' en passant che si fa alla persona che ci interessa. Perché in fondo, ci vogliono solo 5 minuti, difficile dire di no.

 

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Ma attenzione: a volte capita che il break duri di più, troppo secondo alcuni, che diventi un appuntamento fisso, e che non sia giustificata. Soprattutto se ad approfittarsene sono pubblici impiegati che abbandonano il posto di lavoro, recando un danno all'utenza.

 

È così che la pausa caffè è finita in tribunale, oggetto di polemiche, rimpalli e discussioni giuridiche. Il casus belli riguarda due dipendenti comunali accusati di falsa attestazione fraudolenta della presenza (si ricorderà la lotta di Brunetta all'assenteismo e la sua riforma del 2009, quando era ministro per la Pubblica amministrazione): i due impiegati si erano allontananti dall'ufficio, il primo per un caffè, il secondo per recarsi al tabaccaio, ed erano stati pizzicati durante un controllo delle forze dell'ordine.

 

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I giudici di primo grado del tribunale e poi la Corte d'appello hanno confermato il reato, soffermandosi sulla futilità dei motivi delle due «fughe» dall'ufficio, e ponendo l'accento sul fatto che quelle pause non erano registrate dal timbro del cartellino.

 

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I due imputati, secondo le toghe, avevano dichiarato che quei caffè erano una prassi e che il superiore era informato, giustificazioni considerate futili. Ma la Cassazione, pronunciandosi di recente, ha corretto un po' il tiro dei colleghi del primo e secondo grado di giudizio.

 

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Proprio gli aspetti della prassi e tolleranza dei capi, secondo i giudici supremi, dimostrano che l'intento dei due impiegati non è criminale. Certo, ogni episodio è se stante, ma così facendo si attenua la posizione di chi esce per la pausa. In ogni caso, il reato resta, ma è punibile solo se sono provati abitualità e danno rilevante per la Pubblica amministrazione. Insomma, una bella bega. Che riapre il dibattito. E crea scintille.

 

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«Non scherziamo - tuona Crepet - La pausa caffè è motivo di creatività. Capisco che il burocrate statale, non avendola, non sappia che cosa sia. Ma che mondo è, che cos'è questo grigiore? Una punizione a chi beve caffè? Scopriamo le carte: se il futuro è stare in smart working con pausa caffè libera, e questo dal punto di vista del giuslavorista è una cosa positiva, allora dico che siamo un popolo di pazzi, che rovinerà la storia del Paese.

 

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Se crei difficoltà a chi lavora in presenza, se l'ufficio diventa una sorta di carcere dove non puoi neanche fare la pipì se no chissà che succede, e dall'altra parte sul piatto d'argento c'è smart working, allora le cose si mettono male. Steve Jobs elogiava le pause in cui il pensiero è libero e parlava della creatività.

 

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Che è quello spazio di lavoro non burocratizzato, non finalizzato a qualcosa. Quando sei al desk non puoi lavorare con il tassametro, e non devi essere pagato solo in base ai minuti in cui sei seduto.

 

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Quando ti alzi e parli con Giovanna che ti dice: "ho letto un libro che m' ha emozionata", oppure "ho visto un film che m i ha aperto la testa", e a te viene un'idea, quello è un momento d'oro. Ma i giudici lo capiscono? La Pubblica amministrazione viene danneggiata dal lavoro a distanza non dalla pausa caffè. Tutto a vantaggio dei computer. E a rimetterci sono i giovani - continua il saggista - Renzo Piano chiamava la creatività il «ping pong»: hai una idea, la butti dall'altra parte, un altro la migliora, la ributta di là, fa avanti e indietro, e cresce. Studino Renzo Piano i giudici! Un vecchio prof dell'ospedale a Londra diceva: "One man alone means nothing", da solo l'uomo non è nulla.

 

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Ma insieme, davanti a un caffè, si possono fare grandi cose». Ah, che bell''o cafè, pure in carcere 'o sanno fa, canta De André. Cremosa coccola quando espresso al bar, magia a casa con la moka che borbotta dolcemente, tradizione al rallentatore se a partorirlo è la macchina napoletana: il caffè ci piace in tutte le salse, molti popoli ce lo invidiano.

 

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Un cerimoniale da tutelare: il ministero delle Politiche agricole ha formalizzato la candidatura del Rito del caffè espresso italiano a patrimonio culturale immateriale dell'umanità e in subordine quello della Cultura del caffè napoletano (sarà la ricetta della mamma di Ciccirinella?).

 

Un momento topico che può arrivare a salvarti l'esistenza, se si pensa a Max Gazzè che ne La Vita com'è non la fa finita soltanto perché è pronto un altro caffè. E che profumo... Eduardo docet: vedete quanto poco ci vuole per rendere felice un uomo?

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