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CAROL ALT, IL VOLTO PIÙ FAMOSO DEGLI ANNI ’80, VUOTA IL SACCO: I MATRIMONI, IL SUCCESSO, L’AMORE PROIBITO CON AYRTON SENNA, IL FAMOSO TENNISTA CHE PROVA A STUPRARLA - È DIVENTATA CRUDISTA 20 ANNI FA, DOPO DUE TUMORI ALL’UTERO E UN FOTOGRAFO SCREANZATO CHE LE DISSE CHE ERA GRASSA - L'INGENUITA' SULLA COCAINA, LE COPERTINE DI ‘VOGUE’ QUANDO SERVIVA I TAVOLI, VERSACE, CAVALLI, VALENTINO, IL FILM CON DINO RISI: ‘DA ATTRICE NON MI HANNO PRESA SUL SERIO, LUI SÌ’

Raffaele Panizza per Gq Italia

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Incontrarla in via Montenapoleone è come dare un passaggio a uno sconosciuto e ritrovarsi in macchina Rambo, sfiorare una rissa in un vicolo ed essere salvati dai Guerrieri della Notte. Lei stessa, tra realtà e fantasia, carne ossa e pagine patinate, ammette di considerarsi un personaggio storico: «In fondo, sono stata il volto più famoso degli anni Ottanta», conviene, sollevando la frangetta, e mostrando un viso bloccato in una zona del tempo apparentemente senza vento, dove i suoi 55 anni sono una misura convenzionale, imperitura icona di se stessa.

 

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 Top model per Valentino, Ferré, Versace e tutti i grandi. Poi attrice (Via Montenapoleone e I miei primi 40 anni su tutti), scrittrice di romanzi e divulgatrice salutista, a David Letterman che le domandava su quante copertine fosse già apparsa, nel 1984 rispondeva così: «Trecentocinquanta. Ma il conto risale a un anno fa».

 

Ci incontriamo al Four Seasons di Milano, città in cui «ogni strada è un ricordo», e dove è stata invitata a parlare di salute e crudismo in occasione del Glamour Beauty Show. Un regime alimentare che ha abbracciato vent’anni fa, dopo due tumori all’utero e la sincerità sgarbata di un fotografo in Venezuela: «Avevo 34 anni, e scattavamo un servizio intitolato Carol Alt and friends» ricorda, fasciata in un tubino Chanel.

 

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 «Telefonò al mio agente dicendogli che non ero nelle condizioni fisiche di posare in costume. Chiamai un luminare e cambiai la mia vita». Ora sta a New York, da sola, con due gatti trovatelli e dei condomini alle prese con la sua intransigenza ecologista: «Sono il poliziotto del palazzo, perseguito chiunque sbagli la differenziata», cinguetta. Ma sta per cambiar vita, confessa a GQ: tra lei e Alexei Yashin, il campione russo di hockey con cui ha diviso gli ultimi sedici anni, è finita per sempre.

 

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Come hanno reagito i pretendenti, in attesa da secoli, sapendola libera?

La verità è che non lo sa nessuno, tutti ci credono assieme. Non sono certo il tipo che telefona alla redazione di People per raccontare i fatti propri.

 

Chi ha lasciato chi?

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È stata una decisione sua. Credo attraversasse una crisi personale: per un atleta, il momento del fine carriera è difficile. Lui, poi, era il numero uno al mondo, con un contratto da cento milioni di dollari in dieci anni: all’improvviso, s’è svegliato e non c’era più niente. Io invece avevo i libri, i film, i tappeti rossi. Mi telefona ancora, sa? Per avere consigli detox, principalmente. E per dirmi che è impossibile trovare una donna come me.

 

E lei che risponde?

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Perché diavolo te ne sei andato, idiota?

 

Lo ama ancora?

Sì.

 

Se tornasse?

Gli direi no. Ormai sono andata avanti.

 

Quando finì il suo matrimonio con Ron Greschner fu lei a dire basta.

Ma lui aveva già lasciato da molto il nostro legame, dentro di sé. Un giorno mi piantò a Milano per gelosia, neanche fossi una puttana. Era diventato il giudice e il boia, e questo ha rovinato tutto. Poi per me s’aprì un’altra porta, una porta bellissima.

 

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Ayrton Senna.

Sì. Era carino, pieno d’attenzioni. Mio marito non m’aveva mai fatto neppure un regalo di compleanno, lo sa? E io ero così giovane, e lavoravo così tanto, che quasi non ci facevo neppure caso.

 

La vostra fu una lunga storia non ufficiale.

Approfittavamo degli shooting, mi raggiungeva su un’isola, a una sfilata: è durata quattro anni. L’ho amato profondamente.

 

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Avevate un comune amico a Milano, il fotografo Monty Shadow, ed eravate spesso in città.

Cenavamo a La Briciola, il nostro ristorante preferito. Girare con Ayrton era incredibile: la gente s’arrampicava sui cornicioni per guardarci passare. Una volta, davanti a Cinelli, bloccammo mezza città. Da Pollini, una sera, dovettero chiamare i vigili per farci uscire dal negozio, tanta era la folla.

 

Viaggi in auto ne facevate?

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Ricordo una fuga notturna, nelle campagne di Novara, sulla sua Ferrari. A un certo punto Ayrton si gira verso di me e fa: Carol, è finita la benzina. E io: ma sei serio? Dove lo troviamo un distributore adesso? Per miracolo, in mezzo al nulla, apparve questa stazione di servizio. E ricordo Ayrton scendere dall’auto e iniziare ad armeggiare con la pompa.

 

Finché a un certo punto mi bussa al finestrino e dice: Carol, hai idea di come diavolo funzioni? Per fortuna si fermò un’auto e ci salvò: la scena di questa madre di famiglia che aiuta Senna a fare rifornimento, non la dimenticherò mai.

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È stato il più grande amore della sua vita?

Se rispondessi sì, sarei ingiusta con gli altri uomini che ho amato. Il giorno della sua morte decisi di lasciare mio marito, le dico solo questo.

 

Chi è stato il suo amico più intimo, tra gli stilisti?

Roberto Cavalli. Insieme abbiamo anche trascorso delle bellissime vacanze. Una volta venne a trovarmi a Bahamas con la fidanzata, ospite nella villa che avevo affittato con Alexei. Andammo a cena da Mesa Grill e ordinò il vino migliore, e poi a giocare al casinò. Vincemmo per tutta la notte, lui col sigaro in bocca che puntava, e noi a seguirlo in ogni puntata, senza sbagliare un colpo, dandoci il cinque e urlando. Una notte magica.

 

C’è un piccolo docufilm di culto degli anni Ottanta, Portfolio, in cui lei sembra vicina anche a Valentino.

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Un rapporto diverso: lui era una persona serissima. Per tre anni feci tutti i suoi editorial, e una volta invitai Christopher Reeve a una sfilata: era un mio caro amico e la sua presenza fece scalpore, perché ai tempi le celebrities non andavano abitualmente agli show. Poi lo ricordo quando McDonald’s aprì un locale in piazza di Spagna a Roma: sentiva l’odore delle patatine fritte sui tessuti e diventava matto.

 

Gianni Versace?

Mi avvicinò fuori dalla Park Avenue Armoury di New York, dopo un défilé Armani. «So che Ferré ti ha vestita per gli Oscar», mi disse, «ma se avrai mai voglia di indossare un mio abito, sarebbe un onore».

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Ovviamente, a Gianfranco non lo dissi mai. Pochi mesi dopo il suo assassinio venni invitata a una cerimonia di suffragio nella residenza di Como. Al termine della celebrazione, Santo Versace mi regalò un cofanetto con tutti i modelli di occhiali realizzati dalla griffe in quel triste 1997.

 

Girava molta droga, in quegli anni?

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Sì, ma ne stavo alla larga. Anzi, ero decisamente ingenua da quel punto di vista: a un certo punto convivevo con un importante intermediatore immobiliare di New York, e una sera, a casa sua, trovai della polvere bianca in una confezione della cipria. Gli feci una scenata incredibile perché credevo mi stesse tradendo. Ovviamente, era cocaina.

 

C’è una scena, in uno dei suoi romanzi, dove una modella viene quasi stuprata. Le è successo?

Per una ragazza che lavora nella moda è impossibile evitarli, momenti così. Mi trovavo a Parigi, a una cena con John Casablancas, il mio agente. A fine serata chiese a un amico di accompagnarmi in albergo, per mettermi al sicuro. Arrivati all’hotel, disse: domani ti porto all’aeroporto. E io risposi ma no, non disturbarti. Al che lui mi afferrò per la gola, mi sbatté contro il muro e disse, lentamente, da pazzo: domani, ti porto all’aeroporto.

 

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Ebbi la freddezza di assecondarlo, e la mattina successiva scappai all’alba. Un’altra volta mi capitò con un famoso tennista. Mi spinse in camera e poi sul letto. Riuscii a scalciarlo via e a rinchiudermi nel bagno: dall’altra parte della porta, mentre gli urlavo di andarsene, con tutta la calma del mondo fece «Scusa, non avevo capito che “no” volesse dire davvero no». Avevo diciannove anni.

 

Avrebbe potuto finire tutto lì.

Sì. E invece ho deciso d’imparare la lezione e stare più attenta. Anche adesso non vado mai a letto subito, se frequento un uomo.

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Chi la spinse a continuare?

Il titolare del ristorante dove lavoravo, a Long Island. Uscì la mia prima copertina di Vogue America mentre ancora servivo ai tavoli. Mi disse: Carol, sei sicura non sia il caso di mollare il lavoro serale e concentrarti su quello diurno? Poi c’era mio padre, pompiere, che collezionava tutto. Quando portai a casa il mio fidanzato di allora, Warren Beatty, gli mostrò per ore tutti i ritagli che parlavano di me.

 

Lei aveva vent’anni, lui quarantacinque.

Voleva che lo seguissi in Russia per girare Reds, il suo kolossal sulla Rivoluzione bolscevica, ma avevo troppo da fare, non avevo tempo. Volai fino a Parigi per dirglielo di persona: Warren, ti amo, tu mi ami, ma non può funzionare. Ricordo che lui mi guardò negli occhi e disse: sei proprio un tipino in gamba, sai? E le nostre vite si separarono.

 

Sente di essere stata snobbata, come attrice?

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Presa poco sul serio, quello sì. Un giorno mi lamentai con Dino Risi, sul set de Il vizio di vivere, perché dava consigli a tutti tranne che a me. Mi rispose «Carol, tu non ne hai bisogno, sono questi altri qua che non hanno idea di ciò che fanno». Fu una grande soddisfazione.

 

Qual è il treno più importante che ha perso, nella vita?

Non me lo faccia dire, lo sa bene.

 

Professionale, intendevo.

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Non c’è. Il mio unico rimpianto è Ayrton.

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