75! POZZETTO CELEBRATION - DALLA MILANO DEL DERBY AL RAPPORTO CON PAOLO VILLAGGIO, IL COMICO MILANESE SI RACCONTA - “L’AMICIZIA CON DON VERZÈ? ERO LEGATO ALL’OSPEDALE E AI MALATI" - "IO E COCHI ERAVAMO FRATELLI"
Emiliano Liuzzi per il “Fatto Quotidiano”
Gli anni di carriera non sono un conto aritmetico: più di una vita, come definizione, può bastare. L’amicizia e la vita prefessionale con con Cochi Ponzoni neanche: facevano le elementari insieme, abitavano nella stessa casa che finì sotto le bombe alleate e si rifugiarono a Gemonio, sul lago Maggiore. Lui si chiama Renato Pozzetto, 140 film, oltre al cabaret e al teatro sono un biglietto da visita che può bastare.
Renato Pozzetto arriva alla camera ardente di don Luigi Verze allospedale San Raffaele
L’età è 75 anni, domani, giusto per chi volesse fargli gli auguri. L'hanno spesso discusso perché amico di don Verzè (“ero legato all'ospedale e ai malati”) e di simpatie leghiste (“se avere amici che votano Lega significa essere leghisti, sì, lo sono”), ma alcuni suoi film che all’inizio non piacevano neanche a lui (“ero perplesso sul Ragazzo di campagna, uno di quelli di maggior successo, ma non solo”) sono diventati negli anni piccoli cult.
Sono tornati anche in tv, negli ultimi anni, grazie a quei due geni della dissacrazione e del non prendersi troppo sul serio che portano i nomi di Gino Vignali e Michele Mozzati.
Allora, proviamo a partire dall’inizio: perché la coppia con Cochi?
Perché siamo nati e cresciuti insieme, avevamo la stessa lucida follia, ci piaceva la stessa musica e lo stesso cinema, frequentavamo lo stesso bar, la stessa compagnia. Fu naturale, più che una scelta.
L’inizio professionale?
Le prime cose le abbiamo fatte, io e Cochi, all’Osteria dell'Oca, a Milano. Funzionava così allora, che si tirava tardi tra vino, osterie e chitarre. C’erano due locali: l'Oca e il Bar Jamaica, a Brera, quello di Luciano Bianciardi, per intenderci.
E lì iniziammo a prendere contatto con quel mondo. Poi facemmo i primi spettacoli che fruttavano due lire. Ma fu per gioco, dopo uno, due, tre bicchieri, si prendeva la chitarra. E si improvvisava. Le cose migliori nascevano così.
Sempre per osterie?
No, dopo al Cab 64, locale che sarebbe passato alla storia come il fratello maggiore del Derby. Era il 1964 e in cartellone eravamo io, Cochi, Felice Andreasi, Lino Toffolo. Qualche mese dopo conoscemmo Dario Fo ed Enzo Jannacci e migrammo in viale Monte Rosa, al Derby.
O meglio, il pomeriggio al bar Gattullo, che era il bar mio e di Cochi. Cominciarono a frequentarlo anche Jannacci, Beppe Viola, qualche volta Dario Fo, che abitava a Porta Romana. Nascono così, quasi per gioco, Cochi e Renato, con tutto quello che ne segue.
Il Derby, lo stesso posto che frequentavano Bettino Craxi e Pillitteri, ma anche Francis Turatello, Franco Califano. O Mina. Fu grande palestra, non solo per voi. Erano gli anni della mala, un po’per finta e un po’per davvero. Turatello non lo ricordo. Ma noi pensavamo a far divertire la gente. Così scoprimmo Diego Abatatantuono, all'epoca, figlio della guardarobiera, Diegolone, allora, Teo Teocoli e tanti altri. Alcuni arrivavano e sparivano. Altri rimasero. C’era Paolo Villaggio, che conobbi lì e non ci saremmo più lasciati.
Rimane un amico Villaggio?
Sì, nel mondo dello spettacolo è una delle poche persone a me molto care. Continuiamo a sentirci, anche oggi. Non abbiamo più smesso. Ci raccontiamo dei nipoti, degli acciacchi, dei dolori. E delle gioie. Insomma, amici, per dirla breve.
Gioie del passato? Si diverte ancora Pozzetto?
Spesso faccio con alcuni amici storici la risalita del Po, in barca. E posso dirle che lì, due mesi fa, sono stato felice. È una cosa da leghisti la risalita del Po. È una cosa di noi padani, quelli come me che hanno diviso la vita tra Milano e il Varesotto, il lago. Che poi è la mia pace.
E vacanze passate alla storia?
Ce ne sono. Ricordo che partimmo io, Cochi, Enzo, per l'estremo Oriente, facemmo India e Thailandia, quei viaggi che sapevamo la data e l'ora della partenza e non quando e se saremmo rientrati. Fu una scoperta spettacolare. Io, Cochi ed Enzo eravamo fratelli.
Le manca Jannacci?
Molto. Lo penso spesso. Noi gli dobbiamo molto. Come credo che nella musica lui dovesse qualcosa a noi. E con Enzo, anche l'estate, eravamo sempre insieme. Lui arrivava a Cesenatico, ospite di Dario, noi da buoni milanesotti in vacanza con le famiglie sulla riviera Romagnola. Ma si può immaginare cosa ne venisse fuori. Tiravamo l'alba, tutte le sere.
A un certo punto lei e Cochi vi separaste. All'epoca si discusse molto del vostro dissenso, delle liti furibonde, le invidie.
Ma non c'è mai stato niente di tutto questo. Io feci il cinema, un certo tipo di cinema, e Cochi il teatro. Ma non si ruppe nessun incantesimo, arrivammo alla fine di un ciclo. Io forse mi feci travolgere dagli impegni a Roma. Giravo un film dietro l'altro, e non sempre con ottimi risultati. Anzi. Ma erano i produttori che dettavano legge.
Erano celebri le sue partner femminili. La più brava?
Ride, ma non risponde: “Ci sono stati colleghi coi quali oltre a un rapporto di lavoro si è creata una conversazione. Altri, pochi, che sono diventati amici”.
La più bella tra le attrici?
Tante donne bellissime, non posso dire chi fosse la più bella. Mi imbarazza.
Mai avuto tentazioni?
Hai voglia, ma non le ho mai perseguite. Io e mia moglie siamo stati sposati 40 anni, è morta nel 2009 e il vuoto non si è mai riempito. Ci siamo conosciuti che avevamo 14 anni e non ci siamo più lasciati. E' stato difficile, lo è ancora oggi. Poi se n'è andato mio fratello, ed è stata un'altra perdita. Avevamo aperto insieme una locanda, la Locanda Pozzetto, qui, sul lago. Appassionati di cucina. Un posto delizioso, ma anche lui mi ha lasciato solo. Quelle prove davanti alle quali la vita ti mette e non ti resta che mettercela tutta.
I nipotini? La descrivono un nonno affettuoso?
Ne ho cinque. Poi ci sono quelli di mia cognata e diventano dieci. La scorsa settimana eravamo a casa con dieci bambini, il tempo di annoiarsi non c'è.
La nostalgia fa brutti scherzi: era tutto bello ieri, oggi fa tutto schifo.
RENATO POZZETTO IL RAGAZZO DI CAMPAGNA
Non direi, almeno non nel mio caso. Ho la fortuna di continuare a lavorare, a ritmi meno frenetici, ma lavoro. E soprattutto trovo che a Milano la gente sia tornata in strada.
Credo che la mia generazione debba molto ai cortili, molta della nostra follia proveniva da lì, dalle giornate passate in strada, dalle ginocchia sbucciate. E questo piacere mi sembra che sia ritrovato. Lo vedo dalle mie parti, in Porta Lodovica, a Milano. La gente non è più chiusa in casa, esce. Il sabato e la domenica escono. E i bambini vivono quella strada che può essere salutare.
Ha ancora progetti?
Ne ho uno in particolare e al quale tengo molto. Recitare a teatro e riproporre frame e spezzoni dei vecchi film. Vediamo quanto è realizzabile.
Pozzetto non era bello, in anni in cui si doveva esserlo per forza al cinema. E non era neanche romano, in un periodo nel quale comandava Cinecittà e, inevitabilmente, tutti quelli che giravano lì attorno. Perché ha avuto così grande successo?
MATTEO SALVINI COME RENATO POZZETTO
Non lo so. Direi che la mimica funzionava. Ha funzionato la palestra del cabaret, lì non puoi permetterti di sbagliare passo, mandi a quel paese una serata. Forse è stato questo. O forse solo questione di chimica.