I BEI ‘’NEW YORK TIMES’’ SONO FINITI: LA CRISI MORDE E I CAPI SI MORDONO

Vittorio Zucconi per "La Repubblica"

Dentro il castello della «Signora in Grigio», della sede del New York Times concepita da Renzo Piano e imbottita di 112 Premi Pulitzer volano insulti e si sfondano i muri di cartongesso a pugni, come in una famiglia dove mamma e papà ormai si odiano, davanti ai bambini che tremano.

Sono tempi troppo coloriti per quel super-giornale di New York che da un secolo rappresenta il metro contro il quale il giornalismo del mondo è misurato e che rivela in questi giorni di pettegolezzi da condominio sulle liti fra la prima direttrice donna, Jill Abramson e il suo numero due, il primo caporedattore afroamericano, Dean Baquet, la propria crisi. Segno che anche nelle migliori famiglie, quando le cose non vanno bene, i rancori e rivalità affiorano.

Con il crudele accanimento e con la "schadenfreunde", il piacere per i guai altrui che sono sempre il risvolto più sincero dell'invidia e dell'ammirazione, rane e lucertole dell'informazione gracidano impazzite alle notizie di liti furibonde nel ventre del grande alligatore delle news. I malumori scuotono le pareti del quotidiano di Manhattan, da quando al timone è stata messa una donna, la quasi sessantenne Jill Abramson, preferita a Dean Baquet, già direttore licenziato del Los Angeles Times.

Due persone e due espressioni di giornalismo più diverse - lei raffinata e algida harvardiana cresciuta nella high society newyorkese alla Tom Wolfe, lui brusco cronista investigativo figlio del ventre più torbido della "Big Easy" di New Orleans, dove divenne celebre con inchieste anti-corruzione - non si sarebbero potute scegliere. E se l'intenzione dell'editore, Arthur Ochs Sulzberger jr. era quella di mescolare due stili per rivitalizzare un quotidiano in crisi, il risultato è stato finora una deflagrazione.

Come tutta la flotta dell'informazione di carta, anche la superportaerei della 41esima strada fa acqua. Il passaggio obbligato dall'edizione tradizionale al web è avvenuto tra i primi. Ma senza che gli introiti pubblicitari, o degli abbonamenti paganti, siano riusciti a compensare le perdite da inserzioni: per ogni 12 dollari perduti dalla carta, la Rete ne ha restituito soltanto uno. Per restare a galla, l'editore ha dovuto accettare un sostanzioso finanziamento dal re messicano della telefonia, Carlos Slim.

La crisi di fatto si è tradotta in crisi di persone. Come racconta con golosa malizia il giornale online Politico, Jill e Dean cordialmente si detestano, alimentati entrambi da pessimi caratteri. Inoltre la nuova signora della signora in Grigio non nasconde il proprio sprezzo per i residuati del vecchio New York Times, che lei considera zavorrati da una prosopopea professionale che i nuovi tempi non giustificano.

Quando si trovò davanti una copertina della sezione «Style», lo sfoglio dedicato al costume, alle tendenze, alle mode, con una foto che non le piaceva, guardò il caporedattore responsabile e commentò: «Non capisco come tu faccia ad avere ancora un lavoro qui». Per la mesta cerimonia d'addio a 100 licenziati, preferì essere altrove.

Ma trattandosi di uno scontro fra una donna e un afro-americano, i primi due non bianchi, no wasp, non ebrei ai massimi livelli del New York Times, anche la truppa e loro stessi devono camminare sulle uova, per evitare quelle accuse di «scorrettezza politica» e di «insensibilità» che lo stesso giornale non esita a lanciare contro chi non condivida la loro cultura progressista e liberale.

A Jill, soltanto a mezza bocca i redattori maschi, decimati da licenziamenti e prepensionamenti che hanno tagliato 2/5 dei «desk», osano rivolgere il classico insulto diretto alle femmine in posizioni di potere, bitch, cagna bisbetica.

È più facile insegnare femminismo, che praticarlo. Mentre il partito della direttrice si limita a generiche accuse di temperamento collerico e un po' violento al numero due. «Ma io prendo a pugni i muri, non le persone», risponde l'asso del giornalismo investigativo.

Sarebbero banali conflitti di personalità, se non fossero sintomi di crisi ben più profonda, si potrebbe dire strutturale, anche nella immensità del New York Times. La direttrice, «executive editor» chiede un'informazione più spigliata, più pungente, più soft, e costantemente rimprovera ai propri redattori di non mettere abbastanza buzz, abbastanza rumore e ronzio nei loro pezzi. Il numero due, cresciuto nel giornalismo di strada aborre l'informazione soft, che punta al frizzante più che al contenuto alcolico.

E quando la crisi raggiunge il climax, Dean prende a pugni i muri, Jill si assenta per i propri "doveri di rappresentanza", coniugi in lite eppure uniti, senza saperlo, nel sospetto di non sapere quale futuro ci sia per le super- portaerei del giornalismo nell'era dei gommoni pirata.

 

jill abramson DEAN BAQUET BILL KELLERjill abramson JILL ABRAMSON THE NEW YORK TIMES 26 APRILE 2013DEAN BAQUETDEAN BAQUET QUANDO ERA AL LOS ANGELES TIMESDEAN BAQUET

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