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I TRE GIORNI CHE CAMBIARONO L'OPERA (QUANDO GLI EVERSIVI DIVENTANO CLASSICI) - MATTIOLI: IL ‘’TANNHÄUSER’’ DI BIEITO A VENEZIA, IL “FAUST” DI MCVICAR A FIRENZE E IL “MACBETH” DI EMMA DANTE A PALERMO RINNOVANO IL LINGUAGGIO DEL MELODRAMMA - MENTRE I CLASSICI RICONOSCIUTI LA FANNO CLAMOROSAMENTE FUORI DAL VASINO: PETER STEIN ALLA SCALA E MARTIN KUSEJ A BOLOGNA

macbeth di emma dantemacbeth di emma dante

Alberto Mattioli per la Stampa

 

Tre grandi regie d'opera in tre giorni. In Italia non succede spesso, e basterebbe a fare il titolo. Però la vera notizia è che si tratta di tre registi già rubricati, a torto o a ragione, alla voce «eversivi» o, peggio, «provocatori» che passano senza problemi fra gli applausi, e pure tanti. Nuovi classici, insomma.

 

Mentre i classici riconosciuti la fanno clamorosamente fuori dal vasino come Peter Stein alla Scala con un imbarazzante Don Carlo o un virtuoso del famolo-strano come Martin Kusej con un inverecondo Ratto dal serraglio a Bologna.

 

il il "macbeth" di emma dante d1c

Parliamo invece di cose e spettacoli seri. Alla Fenice il minimo sindacale di «buuu!» di prammatica accoglie il Tannhäuser di Wagner con regia di Calixto Bieito (e anche un po' di Wagner, volendo). Ne parlerà su queste pagine il sommo Giorgio Pestelli. Qui basti dire che Bieito, che è sempre stato un grande regista con il vizio, alle volte, di esagerare (una Traviata dove alla fine lei non muore e scappa con Annina con cui ha una relazione lesbica è un po' troppo anche per noi pasdaran del nuovo), adesso diventato un grande regista tout court, sempre «forte» ma depurato, rigoroso, perfino sobrio.

tannhaeuser di wagner alla fenice di venezia  9tannhaeuser di wagner alla fenice di venezia 9

 

Ancora più interessante il caso di Emma Dante, che a Palermo, per l'inaugurazione del Massimo, firma il Macbeth più bello visto da molti anni, insieme con quello di Cerniakov a Parigi. Dante usa il suo teatro eccessivo, barocco e visionario per illuminare (finalmente!) una categoria estetica fondamentale per quello di Verdi: il grottesco.

 

faust nell'allestimento di david mcvicarfaust nell'allestimento di david mcvicar

Così la famigerata «musica villereccia» che accompagna l' ingresso di Duncano vivo diventa una surreale sfilata di pupi siciliani; Duncano morto è una Madonna dolorosa trafitta da sette spade da processione del Venerdì santo e Macbeth entra cavalcando lo scheletro di un cavallo.

 

SuperEmma risolve benissimo le scene più difficili, quelle dove cadono quasi tutti i suoi colleghi: le streghe, le apparizioni, i sicari, la battaglia. E questo «Patria oppressa», con il coro grigio ammassato sulla sfondo davanti a una distesa di cadaveri coperti da teli bianchi, lo ricorderemo a lungo.

ALBERTO MATTIOLI  ALBERTO MATTIOLI

 

Grandi commenti sulla foresta di Birnamo fatta di fichi d'India («Fichi d'India in Scozia? Come i cavoli a merenda», la battuta più spiritosa), come se nella musica ci fosse alcunché di scozzese o il Macbeth non fosse tranquillamente collocabile in qualsiasi coordinata spazio-temporale.

 

Unico peccato, ma veniale, la catarsi finale con il coro in platea, un po' una ruffianata. Mortale, una parte musicale non spregevole in sé, ma che rema contro quella scenica. Gabriele Ferro è così elegante da risultare quasi esangue: di fronte all' incisività di quel che si vede, si vorrebbe sentire qualcosa di più incalzante.

 

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Infine, a Firenze riprendono il Faust di sir David McVicar, uno spettacolo che gira in Europa da anni. Qui bisogna intendersi. McVicar sembra tradizionalissimo, ma non lo è. Nel senso che le scene e i costumi dei suoi spettacoli sono quelli consueti, la cura della recitazione e la forza delle idee registiche, no. Così, certo, è almeno mezzo secolo che Faust viene rappresentato in abiti ottocenteschi, da quel concentrato di tutte le peggiori ipocrisie della borghesia ottocentesca che è.

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faust nell'allestimento di david mcvicar. firenzefaust nell'allestimento di david mcvicar. firenze

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Raramente, però, con questa efficacia teatrale, questa cura del dettaglio, questa qualità del lavoro sui cantanti. A Firenze non solo hanno ripreso con cura lo spettacolo (ottimo lavoro di Bruno Ravella, con solo un paio di cadute bozzettistiche) ma hanno anche un eccellente direttore, Juraj Valcuha (maestro, diriga di più questo repertorio, sembra scritto per lei) e una buona compagnia.

 

In particolare, Paul Gay ha capito che il Mefistofele di Gounod non è il solito cattivone con le corna in testa, ma un diavolo salottiero, ironico e charmant.

E Carmela Remigio è una Margherita non solo splendidamente cantata, ma commovente fino alle lacrime.

 

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