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IL CINEMA DEI GIUSTI - “INTERSTELLAR” È UN FILM POTENTE E AMBIZIOSO, MA LE SUE COSTRUZIONI NARRATIVE NON SBOCCIANO MAI IN UN RACCONTO EPICO COMMOVENTE ALLA SPIELBERG, O ALLA GRANDEZZA AUTORIALE DI KUBRICK O TARKOVSKY

Marco Giusti per Dagospia 

 

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Dobbiamo scegliere: esploratori o guardiani. Ma se siamo esploratori e usciamo di casa lasciando i nostri figli per raggiungere la terra promessa o universi inesplorati, il nostro viaggio interiore non sarà quello verso l’ignoto, ma quello di ritorno verso casa. Anche se hai la missione impossibile di salvare la razza umana in un altro pianeta di qualche galassia sconosciuta.

 

Alla fine delle quasi tre ore di “Interstellar” di Christopher Nolan, che lo ha scritto col fratello Jonathan, e vanta un’incredibile fotografia di Hoyte van Hoytena (“Her”), quello che ci colpisce di più non è l’ambizione del regista di costruire una space opera complessa alla Tarkovsky o alla Malick, come ha detto a “The Guardian” Quentin Tarantino. O il desiderio di fare cinema con la pellicola in 70 mm (in Italia si vede in 70 mm Imax solo a Melzo).

 

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O lo spreco di orologi Hamilton come da sponsorizzazione cialtrona. Ma di ricucire dentro un kolossal eccessivo da 200 milioni, dove una star come Matthew MacConaughey viene spedito dentro non so quale worm holes dalle parti degli anelli di Saturno insieme a Anne Hathaway e a un robot con la parlantina, una piccolissima storia d’amore paterno e di promesse che vanno mantenute.

 

Mentre il tempo passa e i nostri figli crescono, sia nella finzione- come in questo caso- sia nella realtà, come in “Boyhood” di Richard Linklater una sorta di film gemello di questo di Nolan, anche se in questo caso non esistono madri ma solo padri che hanno un rapporto di tenerezza assoluta con le figlie.

 

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In una specie di Dust Bowl alla John Steinbeck e alla Woody Guthrie, ma anche un po’ alla “Wizard of Oz”, martoriato dalla fame, dalla malattie delle piante e dalle tempeste di polvere come negli anni ’30, il pilota Cooper, cioè MacConaughey, ha promesso a sua figlia Murph ( la strepitosa Mackenzie Foy di “Twilight” che poi nel tempo diventerà Jessica Chastain) e Ellen Burstyn, che dopo aver compiuto la sua missione per salvare la specie umana su un altro pianeta tornerà a casa. Partirà, a dispetto dei tentativi della figlia per farlo rimanere.

 

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Ma noi sappiamo che dovrà tornare. Tutto il resto, alla fine, compresa la poesia ricorrente di Dylan Thomas, “Do not go gentle into that good night”, conta poco. Fissatevi da subito, anche perché è la prima scena che vediamo, sui libri impolverati e il modellino di razzo interplanetario della cameretta di Murph. Il viaggio che faremo è circolare. Si deve tornare da dove si è partiti.

 

E’ questo che tiene in vita Cooper nella sua esplorazione di pianeti sconosciuti, sia che siano interamente coperti d’acqua o del tutto ghiacciati. Anche la sua co-pilota Amelia Brand, Anne Hathaway, ha un padre amoroso, il dottor Brand, cioè Michael Caine, e un rapporto d’amore con lui. E Murph finirà per vedere Brand come un padre, e lui come una figlia, in un gioco di sentimenti specchianti.  “Interstellar” è un film potente e ambizioso come da anni non se ne vedevano a Hollywood.

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La sua visione del mondo e delle cose è grandiosa. Ma anche clamorosamente ingenuo. E questo probabilmente lo rende invulnerabile per i suoi fan, che sono moltissimi, e per evitargli di cadere nelle trappole del misticismo deleterio alla Terrence Malick. Ci sono delle cadute, è vero.

 

Soprattutto nella parte finale del film, anche se molti trovano invece noiosa la prima parte sulla terra, che personalmente trovo strepitosa con la polvere che avvolge tutto. I suoi personaggi inoltre non sono mai pienamente sviluppati, e spesso è la forza stessa degli attori, la presenza di Matthew MacConaughey, lo sguardo di Jessica Chastain, l’ambiguità di Matt Damon, i volti storici e segnati di Ellen Burstyn, John Lithgow e Michael Caine, il ricordo che abbiamo di loro altrove a funzionare al di là delle battute che hanno e della non-direzione di Nolan.

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E le sue costruzioni narrative non sbocciano mai in un racconto epico commovente alla Steven Spielberg, penso al capolavoro che è “Intelligenza Artificiale”, o alla grandezza autoriale di Kubrick o Tarkovsky. Ma la sua mancanza totale di ironia o umorismo, anche se il robot Tars ricorda che il suo umorismo è programmato al 90%,, lo portano dalle parti del grande cinema d’avventura americano degli anni d’oro.

 

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Anche se parte della critica inglese e americana lo ha fortemente criticato, trovando il film “un puzzle ridondante”, “troppo lungo e noioso”, segnato da “script terribilmente inconsistente”, qualcosa che “qualsiasi sia la sua forza, non colpisce mai il suo obbiettivo” o “che ti fa sentire un eroe per essere rimasto sulla sedia non felice per averlo seguito fino alla fine”, non possiamo che apprezzare, come hanno fatto molti registi, da Paul Thomas Anderson a Tarantino, questo film "bigger than life" che può permettersi di toccare temi alla Tarkovsky in un kolossal di avventure spaziali.

 

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Di girare dal vero nei ghiacciai islandesi senza ricorrere al green screen. Nolan crede totalmente nel suo progetto di cinema e nel suo film. Al punto che ci convince che dobbiamo crederci anche noi. E’ questa la sua forza.

 

Anche se ci fa un po’ ridere il poltergeist nella libreria di Murph. O queste quinte dimensioni che sembrano i negozi dell’Ikea. E la soluzione della vicenda, è piena di buchi narrativi, non di buchi neri. Ma fa lo stesso. Lo amiamo comunque. Ovvio che sarà un successo planetario. In sala dal 6 novembre in tutto il mondo.    

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