IRRIDUCIBILE GODARD, SEMPRE 20 ANNI DAVANTI A TUTTI – STEVE DELLA CASA: “NON È MAI STATO PRIGIONIERO DEL PERSONAGGIO CHE GLI HANNO COSTRUITO INTORNO. LIBERO E SELVAGGIO, COME BELMONDO CHE RIFIUTA LA PISTOLA CHE IL COMPLICE GLI OFFRE E MUORE IN ‘FINO ALL'ULTIMO RESPIRO’” – L'AMICIZIA E POI LA LITE CON TRUFFAUT: “QUEL CHE CI UNIVA INTIMAMENTE, COME UN BACIO ERA LO SCHERMO, E NIENT'ALTRO CHE LO SCHERMO. PER UN CASO FRANÇOIS È MORTO, PER UN CASO IO SONO VIVO. MA ALLA FINE, FA DIFFERENZA?”
1 - LA LITE CON FRANÇOIS TRUFFAUT "LUI È MORTO, IO SONO VIVO: FA DIFFERENZA?"
Stralci dell’introduzione a “Francois Truffaut Correspondence, 45/84”, di Jean Luc Godard, pubblicata da “La Stampa”
jean luc godard francois truffaut
«Perché abbiamo litigato io e François? Non ha nulla a che vedere con Genet o Fassbinder. Era qualcos' altro. Qualcosa che, fortunatamente, non aveva nome (...) fortunatamente perché ogni altra cosa stava diventando un simbolo, il segno di sé stessa, una decorazione mortale: l'Algeria, il Vietnam, Hollywood, e la nostra amicizia e il nostro amore per la realtà. Il segno, ma anche la morte di quel segno.
Quel che ci univa intimamente, come un bacio (…) con molta più intimità del falso bacio di Notorious, era lo schermo, e nient' altro che lo schermo. Era il muro che dovevamo scavalcare per evadere dalle nostre vite e avevamo investito così tanto della nostra innocenza nell'idea che quel muro fosse destinato a frantumarsi sotto il peso della fama e delle decorazioni . Eravamo divorati da Saturno.
E se ci siamo allontanati era per paura di essere il primo a essere mangiato vivo. Il cinema ci aveva insegnato a vivere. Ma la vita, come Glenn Ford ne Il grande caldo, si era presa la sua rivincita. (...) Per un caso François è morto, per un caso io sono vivo. Ma alla fine, fa differenza?».
2 - LIBERO, SCOSTANTE, IRRIDUCIBILE HA TANTO AMATO IL CINEMA E FORSE ANCHE UN PO' ODIATO
Stefano Della Casa per “La Stampa”
Da giovane, Godard divorava i film e ne scriveva. Forse aveva già chiaro che quella passione sarebbe stata al tempo stesso intensa ma anche passeggera («il cinema vivrà quanto può vivere un uomo, 100 - 120 anni», ebbe a scrivere). Di fatto, come scriveva Gianni Rondolino pubblicando in un memorabile volume Einaudi le sceneggiature di alcuni suoi film, ha però cambiato la storia del cinema tanto amato e forse anche un po' odiato.
Lo ha fatto quando a fine Anni 50 in collaborazione con gli amici Chabrol e Truffaut ha presentato a Cannes la sua prima regia, Fino all'ultimo respiro, il film che secondo Jacques Lourcelles «ha fatto perdere l'innocenza al cinema».
Godard racconta una storia contemporanea, un piccolo delinquente braccato dalla polizia, una vicenda vista mille volte e che si vedrà altrettante. Solo che in quel film, a partire dalla dedica iniziale, i riferimenti al cinema che è stato amato si sprecano, e non è un caso se Godard si riserva hitchcockianamente il cameo dell'uomo che riconosce il ricercato e chiama la polizia: quasi a dire che è lui che ha visto tanto cinema e che farà a sua volta cinema da osservatore.
Poi c'è Questa è la mia vita, ritratto struggente di una prostituta che va al cinema a vedere Dreyer e discute di filosofia in un bar con uno sconosciuto. Anche qui si sovvertono tutte le regole linguistiche, visto che per i primi dieci minuti i protagonisti sono ripresi di spalle dento un bar.
E poi ci sono Week end e Due o tre cose che so di lei, che testimoniano quanto Godard abbia capito l'importanza del consumismo e della mercificazione nella società contemporanea. Ha anche l'occasione di lavorare con un grande produttore (Carlo Ponti) su un grande romanzo (Il disprezzo) con grandi attori (Brigitte Bardot).
Finirà malissimo, perché Carlo Ponti vuole i nudi della Bardot mentre Godard è molto più interessato a raccontare come, in una Cinecittà già in sfacelo, il cinema consumi la sua morte sotto gli occhi di uno dei più grandi registi della storia, Fritz Lang (e anche qui il suo cameo ha un significato particolare, perché interpreta l'aiuto di Lang e assiste alla sua lite con il produttore avido e autoritario).
Già, l'autoritarismo. Godard, che come è noto i suoi pensieri non li manda a dire, si mette totalmente in discussione nel maggio '68, quando la Francia è attraversata da manifestazioni che tendono all'insurrezione. Assiste al festival di Cannes stando in una bella villa affittata per l'occasione, ma la lascia per contestare il festival.
Gli viene proposto di girare uno dei tanti western che all'epoca si giravano in Italia e che a loro modo riflettevano il terzomondismo e le tensioni rivoluzionarie ma lui va oltre: in Vento dell'Est ci sono gli indiani che vendono un giornale maoista e Gian Maria Volontè che insulta lo spettatore passivo con parolacce irripetibili. Gli chiedono di fare un film sui Rolling Stones e lui li inquadra per un'ora mentre provano una canzone, Simpathy for the Devil, senza mai terminarla.
Poi smette di fare film: lui il regista più noto al mondo, quello che potrebbe trovare i soldi per qualsiasi progetto fonda un gruppo di ispirazione maoista e gira solo cine-tracts, cioè filmati militanti da proiettare nelle fabbriche e nelle università. Negli Anni 80 ritorna a fare cinema, crea altri scandali, riflette sulla vita, sulla politica e soprattutto sul cinema. E' sempre lucido, irriducibile, scostante. Quentin Tarantino lo omaggia chiamando Band à part la sua società e lui controbatte che Tarantino non gli piace per niente.
Si congeda a novant' anni sui social, tenendo una sorprendente lezione di cinema su Instagram. Non è mai stato prigioniero del personaggio che gli hanno costruito intorno. Libero e selvaggio, come Belmondo che rifiuta la pistola che il complice gli offre e muore in Fino all'ultimo respiro davanti all'albergo dove si ritrovavano i surrealisti. Libero e selvaggio, e soprattutto sempre vent' anni davanti a tutti.
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