“C’È UN FILM CHE MI HA CAMBIATO LA VITA E IO NON L’HO MAI VISTO” – MILENA GABANELLI: “SE SONO DIVENTATA UNA GIORNALISTA TELEVISIVA, GRAN PARTE DEL MERITO È DI UNA VECCHIA PELLICOLA DEL 1973. E SOPRATTUTTO DEL SUO REGISTA, JEAN EUSTACHE. “LA MAMAN ET LA PUTAIN”, SI CHIAMAVA IL FILM, “LA MAMMA E LA PUTTANA”. L’AUTORE, JEAN EUSTACHE, DECISE DI RITIRARE DAL MERCATO LE BOBINE "…PERCHÉ LA MIA COMPAGNA DOPO AVERLO VISTO SI È SUICIDATA…", MI CONFIDÒ. E ALLA FINE SI SUICIDÒ ANCHE LUI. HO RACCONTATO RARAMENTE QUESTA STORIA, PERCHÉ LA MIA CARRIERA INIZIA CON LA SUA DISGRAZIA. BOLOGNA, APRILE 1980. AVEVO 25 ANNI E…”
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Estratto dell’articolo di Milena Gabanelli per www.corriere.it
C’è un film che mi ha in qualche modo cambiato la vita e io non l’ho mai visto. Non tutto, almeno. Solo il finale. Se sono diventata una giornalista televisiva, gran parte del merito è di una vecchia pellicola del 1973. E soprattutto del suo regista, Jean Eustache. «La maman et la putain», si chiamava il film, «La mamma e la puttana». Durava tre ore e mezza, pochi dialoghi. Avanguardia. Un capolavoro per la critica e chi ha potuto ammirarlo dall’inizio alla fine. E sono in pochi, perché questo film […] non lo ha visto quasi nessuno. Introvabile. Sparito, per 50 anni.
L’autore, Jean Eustache, era uno dei grandi esponenti della «nouvelle vague». Un uomo complesso, tormentato, emarginato dall’establishment e che, come tutti gli artisti maledetti, molto spesso diluiva il suo genio nell’alcool. Un uomo dalla sensibilità autodistruttiva, che decise di ritirare dal mercato le bobine del suo più grande film «…perché la mia compagna dopo averlo visto si è suicidata…», mi confidò. Alla fine si suicidò anche lui, a soli 42 anni. Ho raccontato raramente questa storia, per pudore, o anche un senso di colpa, perché la mia carriera televisiva inizia con la sua disgrazia.
Bologna, aprile 1980. Avevo 25 anni, mi ero da poco laureata al Dams e mi mantenevo lavorando in un’agenzia viaggi. Con amici cinefili […] avevamo fondato una cooperativa che organizzava rassegne cinematografiche con fondi comunali. Quell’anno avevamo messo in piedi una rassegna sul «cinema differente» francese, invitando autori come Marguerite Duras, Chantal Akerman e, appunto, Jean Eustache.
[…] Il vero «colpo» era quello di riuscire a portare a Bologna proprio quel film, «La maman et la putain», osannato dalla critica avanguardista e acclamato dai cinefili, ma sparito dalle sale. Ne esistevano due copie, che Eustache custodiva fisicamente in casa. […] In molti mi avevano sconsigliato di perdere tempo. Io lo chiamai, mi diede appuntamento in un bar, gli raccontai cosa volevo fare, e lui mi disse «va bene».
Le bobine arrivarono alla Cineteca di Bologna […] tramite valigia diplomatica. Anche lui venne a Bologna, e per i tre giorni della rassegna ho dovuto badare a lui come fosse un bambino. Inutile tenerlo lontano dai bar, aveva la bottiglia nella tasca del trench. Un po' faticoso, ma l’entusiasmo era enorme. Arriva il grande giorno: sala piena, applausi del pubblico, partono i titoli di testa.
Eustache […] si fiondò dal proiezionista e lo fece sbobinare. Il pubblico era ammutolito, io disperata. Il giorno dopo, con gli occhi gonfi di una notte passata a piangere, andai da lui in albergo furiosa: gli dissi che il suo c... di film poteva tenerselo se non voleva che venisse visto, che avevo lavorato tanto per niente, ed ero stata pure derisa. E lui, a mente sobria, capì.
Quella sera (ultimo giorno di rassegna) acconsentì alla proiezione, ma a condizione di fargli compagnia fuori dalla sala. Lo portai a cena, mi raccontò aneddoti divertenti sui cineasti francesi. Dopo un’ora e mezza mi alzai: «Adesso vado a vedermi almeno la fine del film, tu fai quello che vuoi». Mi seguì, si andò a sedere in fondo alla sala, e cominciò a singhiozzare, mentre scorrevano le immagini di quel triangolo amoroso. Lui stesso infatti aveva lasciato la sua compagna per frequentare l’attrice Françoise Lebrune, la musa che in quel dramma onirico interpretava Veronika, oggetto del desiderio e pietra dello scandalo. E lei, l’ex compagna, per quel film si era uccisa. Fu così straziante che del film non ricordo nulla.
A novembre dell’anno dopo si sparò al cuore. La notizia non mi sorprese, ma mi sentivo in dovere di rendergli omaggio. Da quella rassegna si era avanzato un piccolo credito, credo 500 mila lire, e con la cooperativa decidemmo di produrre un cortometraggio in bianco e nero di un quarto d’ora, in 16 millimetri. «A Jean Eustache», si chiamava. Un filmato che era generoso definire «ermetico», in cui provavo a fare la regista d’avanguardia senza averne il talento. […]
Nella mia infinita presunzione lo proposi pure al Festival di Venezia, ma per la selezione serviva una versione in videocassetta. Era agosto, il laboratorio di telecinema a Cinecittà era chiuso. Mi restava una possibilità: la sede Rai di Bologna. Dopo un martellamento di telefonate, il direttore di allora, Fulvio Ottaviano, mi rispose così: «Noi siamo un’azienda pubblica, non possiamo fare una lavorazione per un privato, a meno che non sia interessante per noi acquistare i diritti […]».
Detto fatto. Il film gli piacque (sono certa di averlo impietosito) e decise di comprarlo per 30 mila lire. A Venezia (1982) passò la selezione e fu proiettato nella sezione Officina. La sala rimase ammutolita: tutti (pure io) si chiedevano dove andasse a parare quella cosa. […]. Il giorno dopo Le Monde mi dedicò 20 righe. Andai a sventolare quel trafiletto al direttore Ottaviano in segno di riconoscimento per l’aiuto che mi aveva dato. E lui solare: «Perché non ci proponi qualcosa per Rai3 Regione?» Erano almeno tre anni che provavo a farlo. Ma quella porta non si era mai aperta. Iniziò così la mia storia televisiva. […]
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