POLANSKI SI CONFESSA - IL REGISTA DEL FILM PIÙ DIVERTENTE E POLITICO DEL MOMENTO, “CARNAGE”, INTERVISTATO PER LA PRIMA VOLTA DALL’ARRESTO PER GLI ABUSI SU UNA 13ENNE AMMETTE: “SÌ, PROVO RIMORSI… MA HO ESPIATO LA MIA PENA” - SUA MADRE FU UCCISA A AUSCHWITZ, QUANDO ERA INCINTA, SHARON TATE FU UCCISA, ANCHE LEI INCINTA. MA È SEMPRE RIUSCITO A RICOSTRUIRSI. COME HA FATTO? “SONO DI UN MATERIALE MOLTO DURO. CON ME, SI POTREBBERO FARE DEI CHIODI”…

Da "Il Corriere della Sera"

Roman Polanski si confessa in un'intervista televisiva per la prima volta dal suo arresto a Zurigo, nel 2009. Dall'infanzia difficile al carcere per gli abusi su Samantha Geimer (tredicenne nel '77): il regista ha risposto alle domande di Darius Rochebin, anchorman della tv svizzera Tsr (www.tsr.ch) «Fin dalle prime risposte - ha spiegato il giornalista - ho sentito che Polanski era in vena di confidenze. Lunedì 26 settembre, al Gstaad Palace, deserto, aperto solo per noi, sembra improvvisamente sbloccato, pronto a tutte le domande. Aveva accettato "qualcosa di molto breve, giusto per le news"». Ma è rimasto seduto sessanta minuti davanti alle telecamere.
Pubblichiamo la trascrizione dell'intervista che andrà in onda stasera su Tsr.


Darius Rochebin per "Tsr" (traduzione di Daniela Maggioni)

Il premio d'onore al Festival di Zurigo, «Carnage» acclamato alla Mostra di Venezia: non c'è qualcosa di ironico in questa tournée degli onori, dopo il disonore della prigione?
«Ci sono abituato da 34 anni. Non bisogna dimenticare che sono stato in carcere. Ho espiato la mia pena. Per questo ho lasciato gli Stati Uniti, perché volevano farmi ripetere l'esperienza. Ma stavolta era più sopportabile. Non ero più preso dal panico del giovane regista del jet-set che non resta mai nello stesso posto più di tre o quattro giorni».

Durante l'affaire Strauss-Kahn, c'è chi ha fatto il paragone con lei. Una pulsione che sconvolge una vita...
«Sì, sì. Certo, sì».

Ha provato qualche rimorso?
«Sì, naturalmente. Ma sono comunque passati 34 anni. Certo, ho avuto rimpianti».

Oggi lei può recarsi solo in Svizzera, in Francia, in Polonia...
«Vivo in Francia, sono francese!».

Sì, ma ci sono molti Paesi dove non può andare. Si sente rinchiuso?
«No, perché, intanto, mi ci sono abituato durante l'anno sabbatico. Poi, nella mia vita ho viaggiato molto. Quel che conta, per me, è d'essere vicino alla mia famiglia e non esserne separato come nell'anno di detenzione. Quel che apprezzo, adesso, è l'assoluta normalità della mia vita».

Talvolta la descrivono come un nano malefico e vizioso o come un genio del cinema o entrambe le cose...
«È un'immagine di me che risale alla morte di Sharon Tate. È questo che è piaciuto ai mass media e continua a piacere sempre di più. L'esplosione è avvenuta con Internet».

Per quale motivo venne in Svizzera, la prima volta?
«Stranamente, la prima volta venni qui per sfuggire ai media, dopo la tragedia di Los Angeles, quando mia moglie Sharon Tate, incinta di otto mesi, fu assassinata con altri tre miei amici. Prima che Manson fosse arrestato, fui addirittura sospettato di aver qualcosa a che vedere con quanto accaduto. Il che eccitava enormemente i giornalisti, perché avevo appena finito di girare Rosemary's baby , sulla magia nera, e loro fecero subito un'amalgama. Era insopportabile. Un amico mi invitò a Gstaad. Mi disse: "Qui sarai al riparo. In effetti, all'epoca, lì ci si sentiva completamente protetti. C'era qualche paparazzo che veniva nell'alta stagione, per le feste di Natale, per fotografarmi e lì finiva».

Sua madre fu uccisa a Auschwitz, quando era incinta, Sharon Tate fu uccisa, anche lei incinta. Ma è sempre riuscito a ricostruirsi. Come ha fatto?
«Sa, me lo domando. Forse, sono di un materiale molto duro. Con me, si potrebbero fare dei chiodi».

Ha visto così spesso la morte, la morte di coloro che amava, la morte a cui lei stesso è sfuggito... Tutto questo cambia il modo di vedere le cose?
«Sicuramente. Vidi la morte quando ero molto giovane, nel ghetto. La prima volta, avevo 7 anni, vidi una donna uccisa, a quattro metri da me. E' come il chirurgo, che si abitua al ventre aperto. Sono abituato alla morte, sì».

Ci sono svolte sbalorditive nel suo percorso, nella sua infanzia, quando dice a una bambina «baciami il sedere», questo determina molte cose...
«Sì, era il mio primo giorno in un asilo nido e m'hanno cacciato via subito. Quindi, non sono mai stato all'asilo. I miei genitori erano disperati. Dopo, il percorso è stato complicato. Molto complicato. A scuola c'era un epidiascopio, una lavagna luminosa. Ero affascinato, non tanto dalle illustrazioni di libri proiettate, ma dal meccanismo della proiezione. Ero sempre il problema della classe, perché mettevo le mani davanti all'obiettivo per fare le ombre cinesi».

Al cinema, a quando risale la prima illuminazione?
«Mia sorella maggiore mi portava a vedere dei film. Ero troppo piccolo per andare al cinema, l'unica cosa interessante era la sala vuota, di pomeriggio e, quando volevo far pipì, non volendo lei perdersi alcuna scena, me la faceva fare sotto le file delle poltrone».

In seguito, i suoi genitori vengono deportati. Lei è nascosto presso famiglie di polacchi cattolici.
«Vivevo in una campagna veramente medievale... Da mangiare, c'era solo avena. La famiglia che mi ospitava aveva tre bambini. La madre era estremamente buona, molto religiosa e certo questo contava. Mi voleva molto bene. Stavo bene, sì».

Regnava la paura, la diffidenza?
«Sì, perché potevo essere scoperto. Per fortuna, avevo un fisico davvero polacco. Avevo i capelli biondi. Lo si può ancora vedere un po' anche se sono grigi. Avevo un fisico che non era difficile da nascondere».

Ha avuto molta fortuna?
«Sì, molta. Ma anche molta sfortuna. Tutto questo si mescola. Forse, in tale scarto fra due estremi, gli alti e bassi si equilibrano...».

Nei suoi film l'umorismo si mescola a situazioni drammatiche
«Nella vita, l'umorismo si fonde con il tragico! Ricordo, in Polonia, i funerali di mio padre. Era l'epoca in cui stavamo uscendo dal comunismo. La vodka circolava ancora, in tutte le circostanze, e i quattro becchini che portavano la bara erano completamente sbronzi. Ero furioso. Non sapevo cosa fare. C'erano i miei amici, i registi Wajda e Morgenstern. Mi dissero: portiamo noi la bara. Era maledettamente pesante. Morgenstern e io eravamo bassi. Sentivo che il corpo di mio padre scivolava verso di noi, che portavamo tutto il peso. Erano momenti comici e drammatici allo stesso tempo».

«Carnage» è un film che ha scritto in parte durante la prigionia, sono condizioni molto particolari.
«Sono buone condizioni! Dipendesse da me, forzerei certi sceneggiatori a farsi arrestare perché si mettano al lavoro...».

Durante la sua carcerazione, ha lavorato sulla tavola dove i prigionieri tagliano le cipolle...
«Stavo terminando Ghost writer . Avevo un computer, ma non avevo diritto a Internet. Qualcuno mi mandava dei dvd. Facevo alcune note che davo all'avvocato, l'avvocato le dava alla polizia, la polizia le restituiva all'avvocato. Poi, venivano mandate al montaggio. Era un modo di procedere estremamente lento. Ci avevano installato in una sala dove per solito i prigionieri spellano le cipolle per guadagnare qualche soldo».

Ci raccontava prima che è stato suo figlio a tagliare il braccialetto elettronico, quando fu liberato. Com'è il gusto della libertà?
«È tutto un po' bizzarro, i primi giorni. Si vedono le cose da un'altra angolazione, secondo il nostro linguaggio da cineasti. La mia è stata un'esperienza che lascia comunque qualche strascico. Non si funziona come prima, alla mia età, tanto tempo dopo i fatti...».

Ricordo di averle sentito dire che, nel cinema, quel che preferisce sono le file d'attesa degli spettatori all'entrata...
«Certo, si possono fare le cose più meravigliose, ma se non sono accettate, la vita può essere tragica. Come per van Gogh, che ha venduto una sola tela, fra l'altro a suo fratello, credo. Questo grande pittore, il mio preferito in assoluto, ha avuto una vita per noi, non per se stesso. Io non ho questa ambizione, vorrei poter condividere la mia visione del mondo con altri».

 

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