“LA VITA È COME IL JAZZ, SE SI IMPROVVISA VIENE MEGLIO” - FULVIO ABBATE IN GLORIA DI NICOLA ARIGLIANO, IL BARONE DEI “CROONER” - "COLONNA PORTANTE DELLO SWING, ERA RITENUTO PER DEFINIZIONE SPETTACOLARE, “BRUTTO”. OLTRE ALLA VOCE, AVEVA UN VOLTO DA CARATTERISTA, DI PIÙ, DA INTERPRETE ASSOLUTO DI SE STESSO" - “VADO A FARE QUATTRO PERNACCHIE”, IL SUO MODO PER RIASSUMERE LA SOSTANZA DEL JAZZ – LA FUGA DA CASA PER RIBELLIONE CONTRO LA FAMIGLIA CHE... - VIDEO
Fulvio Abbate per huffingtonpost.it
Arigliano che sei nei cieli… Più esattamente, nel settimo della memoria televisiva e musicale. D’improvviso, poche sera fa, “blob”, Raitre, gli ha meritatamente reso omaggio, dal nulla estivo lo ha riportato fino a noi, all’attenzione dello sguardo e dell’ascolto di chi ne aveva memoria, anzi, di tutti.
Nicola Arigliano, voce, volto e vessillo del nostro jazz, dato in prestito all’occorrenza anche al cinema, e perfino al varietà televisivo, a “Carosello” perfino, con la sua pubblicità di un digestivo che “… si prende senz’acqua”. Alcuni lo ricordano ancora giovane e spigliato, sarcastico, ironico, la sua maschera nel bianco e nero appena trasfigurato in technicolor degli anni Settanta, mentre corre dietro a un tram in corso Massimo d’Azeglio, a Torino, là dove il mago della pubblicità Armando Testa aveva scelto dovesse trovarsi il teatro dei suoi spot, sebbene allora si parlasse, più semplicemente, di “pubblicità” e ancora prima, come testimoniano i titoli dei quadri di Schifano, “propaganda”. “Antonetto”, appunto.
Nicola Arigliano se n’è andato il 30 marzo del 2010, ha vissuto gli ultimi anni in casa di riposo, a Calimera, nelle sue Puglie. Facendo un salto indietro, a me personalmente dispiace non essere mai andato a trovarlo a Magliano Sabina, in campagna, poco fuori Roma, ai bordi di un’autostrada che raggiunge la verde Umbria, dove si era trasferito: forse per coltivare la sua natura lunare, eppure affatto schiva. Nicola è stato, e forse lo si è detto, la colonna ionica portante dello swing, muovendo dal nostro dopoguerra, un faro della musica leggera, da immaginare, che so, accanto a Tony Dallara, a Nilla Pizzi, Bruno Martino, Fred Buscaglione, a molti altri ancora, di più, è stato il barone dei “crooner”, ossia cantar quasi parlando o viceversa.
Se provavi a chiedergli come si potesse diventare bravi come lui, Arigliano, cioè a cantare con naturalezza, a restituire la voce, il canto, il ritmo con nuova immediatezza ancora di più, come imparare il suo stesso mestiere, lui ti spiegava che era necessario “non essere squadrati”. Indicava così un dono naturale, lo restituiva talvolta con un calambour: “Ho cominciato da ragazzo. Studiavo un po’ di armonia, ero, anzi sono, un bachiano convinto, mi piace tutto di Sebastiano”.
Perle, diademi, tiare musicali assoluti i suoi “Amorevole”, “I sing ammore”, “Un giorno ti dirò”, per non dire “Venti chilometri al giorno”, “Maramao”, “Buona sera, signorina!”, “Carina”.
Ho perfino negli occhi e nell’udito una versione di “Arrivederci”, così come appare in un incunabolo televisivo degli anni ’70, nel mare magnum della rete. Lui in giacca tre bottoni, ampi revers, cravatta non meno ampia a quadri, alle sue spalle i “maestri” dell’orchestra in tenuta color caffè che lo accompagnano, e un numero di telefono in sovrimpressione, i primordi dell’emittenza privata. In quella sua performance sembra di assistere agli ultimi istanti di vita prima della dissoluzione del magico tempo dei night.
Nicola dava a tutti la sensazione di cantare con minimo dispendio di energie, tutte le note, le intonazioni possibili presenti nella voce, nel tesoretto del suo talento erano segno, l’ho detto, di naturalezza; c’era da domandarsi allora dove avesse imparato a farlo, ma soprattutto ammirare quel suo modo di restituire la sostanza, le monete d’oro dello swing.
Una carriera che inizia nell’immediato dopoguerra, Arigliano era nato a Squinzano il 6 dicembre 1923, come sia pervenuto alla musica credo resti un mistero lunare, o forse potrebbe essere dipeso dalla decisione di donare a se stesso uno strumento di sopravvivenza materiale o una via di fuga dal quotidiano familiare.
Lo ricordiamo mentre raggiunge ogni genere di palcoscenico, compreso Il Festival di Sanremo, ultimo doveroso ufficiale omaggio a un artista già ultraottantenne. Fuori di retorica, raccontando le session, le tournée aggiungeva: “… vado a fare quattro pernacchie”, il suo modo per riassumere la sostanza del jazz.
Arigliano era ritenuto plebiscitariamente, per definizione spettacolare, “brutto”, si fa fatica a immaginarlo con una ragazza al suo fianco, marito, eppure, trasfigurando la sua irregolarità somatica, l’uomo si abbandonava all’ironia teatrale; proprio “blob”, fra molte altre gemme dal repertorio tratto dalle teche, ha mostrato un vecchio sketch dove Nicola si presenta in scena con abito e postura da maggiordomo spettrale della famiglia Addams, proprio lui che nel 1996 conquisterà invece la Targa Tenco con l’album antologico “I sing ancora”.
Così come nel 2001 si concederà “Go, man!”, registrato dal vivo, accompagnato da altri “cardinali” del jazz italiano, suoi amici, complici, compagni di strada: Franco Cerri, Enrico Rava, Gianni Basso… Oltre alla voce, aveva un volto da caratterista, di più, da interprete assoluto di se stesso, era cioè ora e sempre Nicola Arigliano, pronto a innalzare la scatoletta del digestivo, oppure a vestire il ruvido panno grigioverde del fante Giardino ne “La grande guerra” di Mario Monicelli, oppure barone viveur e debosciato in “Ultimo tango a Zagarol”; ovunque lo si mettesse Nicola brillava.
Per lui ho provato, e non da solo, l’affetto che si può nutrire per un parente, zio Nicola, meglio, zio Pasquale; spiego meglio: a metà degli anni ’90 l’ho avuto tutti i sabati accanto, ospite in una trasmissione radiofonica su un’emittente oggi svanita, ItaliaRadio, lui irrompeva con ironia stralunata, da zio un po’ svanito, diceva di chiamarsi appunto “Pasquale”, e io: “no, scusami, tu sei Arigliano!” E lui: “… no, ti sbagli, sono Pasquale!”
Nei mesi scorsi, in Salento, a Casalabate, è stato cancellato un murale che lo mostrava gigantesco su una facciata; in molti un istante dopo hanno chiesto che il suo volto tornasse nuovamente, a dispetto dei lavori di ristrutturazione dell’edificio dove fino a poco prima brillava. Raccontava, Arigliano, d’essere scappato di casa a undici anni, per ribellione contro la famiglia che non lo tollerava balbuziente.
Sulla tomba, le sue parole, degne di “Pasquale”: “La vita è come il jazz, se si improvvisa viene meglio”.