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ORA PORGI IL COLLE - BELPIETRO: “NAPOLITANO PAGA LA SUA ARROGANZA E LA SUA SICUREZZA DI ESSERE SOPRA LE PARTI. GIUDICI E PM LO VOGLIONO IN TRIBUNALE. MEGLIO AVREBBE FATTO A SPENDERSI PER IL LODO ALFANO, CHE PREVEDEVA UNO SCUDO PER LE ALTE CARICHE DELLO STATO”
Maurizio Belpietro per "Libero Quotidiano"
Non so se la Seconda Repubblica sia finita con la condanna per frode fiscale di Silvio Berlusconi o con l’elezione di Matteo Renzi a presidente del Consiglio. So però che la Terza comincia esattamente là dove si è conclusa la Prima ed è iniziata la Seconda, ovvero in Tribunale.
Ciò che è avvenuto in questi due giorni, ossia la condanna a un anno e tre mesi per il sindaco di Napoli ed ex pm d’assalto Luigi De Magistris, la richiesta di rinvio a giudizio per Carlo De Benedetti e 38 dirigenti dell’Olivetti, con l’accusa di omicidio colposo, e, infine, il via libera dei giudici all’interrogatorio in aula di Giorgio Napolitano perché dica ciò che sa sulla trattativa Stato-mafia, dimostra una cosa soltanto, ovvero che a dover fare i conti con la magistratura non era unicamente il Cavaliere.
In questi anni a sinistra in molti hanno pensato che il problema della Giustizia fosse solo del leader di Forza Italia e anzi spesso hanno fatto il tifo per i giudici, esultando ad ogni avviso di garanzia, quasi che là dove non fosse riuscito il Pd potesse farcela il pm. E così è stato: coccolate e protette dai progressisti, dai loro giornali e dalle loro trasmissioni televisive, le toghe hanno fatto il loro dovere e cioè hanno eliminato per via giudiziaria Silvio Berlusconi, il quale non essendo mai stato concretamente sconfitto dalla sinistra lo è stato da una sentenza incongrua.
napolitano al festival di venezia
Fatto fuori - per lo meno dal Parlamento se non dalla scena politica - il Cavaliere, i magistrati non sono però tornati nel loro alveo, ad occuparsi di scippi e di ladri d’auto (i quali - sia detto per inciso - non danno notorietà e perciò neppure possibilità di accreditamento e di carriere future), ma hanno continuato a voler esercitare un ruolo di primo piano, senza guardare in faccia a nessuno, nemmeno a un ex collega come il primo cittadino del capoluogo partenopeo.
De Magistris era già stato sanzionato dal Consiglio superiore della magistratura e infatti aveva preferito cambiar aria, appendendo la toga al chiodo per indossare i panni di tribuno della plebe o, meglio, di capo tribuno. Ma aver lasciato le aule di giustizia non gli è servito perché le sue inchieste, quelle contro i potenti e che in passato avevano di fatto contribuito a far dimettere il Guardasigilli Clemente Mastella e di conseguenza il governo Prodi, gli si sono ritorte contro.
Condannato per aver fatto pesca a strascico incrociando i dati telefonici di più persone. Non un’intercettazione, ma comunque un’invasione nella vita degli altri. Una volta, quando c’era di mezzo Berlusconi, La Repubblica inneggiava agli ascolti di polizia con slogan tipo «intercettateci tutti», ma adesso che non c’è più il Cavaliere da braccare i nodi vengono al pettine, anzi gli abusi che ci stanno facendo scivolare verso uno Stato poliziesco, dove tutto, anche le telefonate, è controllato.
E a proposito di Repubblica, c’è da segnalare l’imbarazzo del quotidiano diretto da Ezio Mauro: il suo editore rischia un processo per omicidio colposo. Insieme ad altri non avrebbe tutelato la salute degli operai, alcuni dei quali ci avrebbero rimesso le penne. Carlo De Benedetti come un dirigente della Eternit o della Thyssen, come un qualsiasi membro della famiglia Riva, cioè come uno di quegli imprenditori rapaci che vengono spesso messi alla gogna proprio da Repubblica.
Il processo - se ci sarà - dirà se ha ragione l’accusa o l’Ingegnere, che si proclama innocente. Per ora non posso non notare che il Caimano è probabilmente in compagnia di altri e più voraci caimani, i quali sguazzano dalle parti del quotidiano progressista. Ma la legge del contrappasso mette nei guai anche l’uomo che non ha voluto muovere un dito per rimediare all’accanimento contro una parte politica.
A Giorgio Napolitano sarebbe stato facile intervenire all’epoca, da arbitro, per porre fine alla caccia grossa contro Berlusconi. Fra le tante parole che ha speso e che ancora spende a proposito dell’articolo 18, ne sarebbe bastata una sola per sostenere lo scudo a favore delle alte cariche dello Stato, quel famoso lodo Alfano che il presidente della Repubblica invece lasciò fucilare alle spalle dalla Corte costituzionale.
Ora il capo dello Stato paga la sua arroganza e la sua sicurezza di essere al di sopra delle parti. I giudici e i pm vogliono che parli in un’aula di tribunale. A porte chiuse dovrà rispondere alle domande dei pubblici ministeri giurando di dire la verità, tutta la verità, sulla trattativa Stato-mafia. Per effetto della decisione del tribunale non ci saranno le telecamere e dunque non c’è pericolo di vedere agli angoli della bocca la bava di Arnaldo Forlani sotto torchio di Di Pietro.
Ma, anche senza l’occhio impietoso della tv, lo specchio è rotto. Soprattutto è incrinata la supremazia del Quirinale e quel manto che in questi anni ha protetto tutto, anche i colpetti di Stato dei cosiddetti governi tecnici. Non esulto, perché tutto ciò non mi piace, ma non posso non notare che siamo davanti a una nemesi storica, che in qualche modo fa giustizia di tante ingiustizie.
CAMERA ARDENTE DI GERARDO DAMBROSIO ANTONIO DI PIETRO