1. UN DESTINO TERRIBILE HA FUNESTATO LE ULTIME PRESIDENZE, QUASI UN SORTILEGIO. DA IMENE PIVETTI A LUCIANO VIOLANTE, DA BERTY-NIGHTS A PIERFURBY CASINI, FINO A GIANMENEFREGO FINI, LA MALEDIZIONE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI SI È DISPIEGATA SUI SUOI INQUILINI, ELIMINANDOLI COME CORIANDOLI DOPO UN VEGLIONE DI CARNEVALE 2. DIMENTICATI. CANCELLATI. ILLUSI DALL’EGO IPERTROFICO. CONVINTI DA QUALCHE COMMENTATORE COMPIACENTE DI AVER TRASMUTATO DA AVANZI DI PARTITO AL RANGO DI STATISTI. TRAVOLTI DALLA BORIA, DALLA PROGRESSIVA IRRILEVANZA, DALLE INTERVISTE FUNERARIE ED ‘ESCLUSIVE’ DEL TG1, DALLE CRISI DI GOVERNO. PRECIPITATI IN UN VORTICE CAFONAL DI OVVIETÀ SPACCIATE PER TAVOLE DELLA LEGGE ED INAUGURAZIONI COMPULSIVE 3. AVVISO AL PROSSIMO “FORTUNATO” PRESIDENTE: PRIMA DI INSEDIARSI, CHIAMARE L’ESORCISTA

DAGOREPORT

A volte ritornano. Più spesso spariscono. Ingannati dal falsopiano del destino. Precipitati in una deviazione della storia. In un equivoco. In un derivato dall'origine incerta che trasforma il colpo della vita in sprofondo e l'illusoria libertà della carica super partes (leggi mani libere), in prigione permanente.

Ed è allora, a metà mandato, quando li vedi presiedere la Camera con la campanella in mano, annoiati arbitri di periferia in un gioco che tra un richiamo all'ordine e un'espulsione dall'aula pensavano di dominare, che la foto va in cornice e ingiallisce per sempre.

Li osservi e cogli un dubbio non ancora manifèsto. Una striatura nel volto. Una piega di disgusto. Il terrore che, dietro alla postura grave, impettita e ‘compresa' propria del "sacro impegno con la Nazione", la festa sia finita prima di iniziare.

Pivetti, Violante, Bertinotti, Casini, Fini. Una donna. Quattro uomini. Gli ultimi cinque presidenti. Dimenticati. Cancellati. Illusi dall'ego ipertrofico. Convinti da qualche commentatore compiacente di aver trasmutato da avanzi di partito al rango di statisti. Travolti dalla boria, dalla progressiva irrilevanza, dalle interviste funerarie ed ‘esclusive' del Tg1, dalle crisi di governo. Dal vicolo corto dell'appartenenza ‘limitata'.

Precipitati in un vortice cafonal di dichiarazioni banali, ovvietà spacciate per tavole della Legge ed inaugurazioni compulsive. Intrappolati in segni e simboli rivelatori del progressivo distacco dell'istituzione dalla realtà. La megalomanìa con vista sul baratro. Le vorticose ristrutturazioni degli appartamenti in dotazione. Il ricorso alle Fondazioni. Il presenzialismo inutile. L'eterno taglio di nastri che di Biennale in Festival del Cinema, non garantisce voti né traguardi.

Del Subcomandante Fausto Bertinotti si conosceva il trittico. Abbandonate piazze, partiti, sindacati e panini con la porchetta sotto alla bandiera rossa, Berty-night e signora Lella si dedicarono al déjeuner sur l'herbe delle Fendi. Si diceva preferissero il salotto di Guya Sospisio, quantunque arassero volentieri con sigaro, vestito di lino e chioma simil-Milva anche casa Verusio, Angiolillo, Federici o il "Porta a porta" dell'amico Bruno Vespa.

Fausto non sottilizzava e prossimo alla trombatura, anzi, rivendicava party e trasversalità: "La reclusione e il ghetto sono scelte contro cui mi batto da sempre" argomentava sublime: "Una società chiusa, dove ognuno sta nel proprio mondo, piace solo ai conservatori". Dava "del tu ai camerieri" per l'estasi della Sora Lella e plateale forma alla confusione, Berty.

Indossando l'inconsapevole livrea di ogni macchietta suo malgrado e interpretando con eguale, ignaro candore, un allarmante sbandamento nei campi d'applicazione che anni dopo, avrebbe prodotto nel Palazzo terremoti un tempo impensabili.

UN'ALTRA EPOCA.
Una volta era diverso. Ci fu un tempo lontano in cui per i Presidenti della Camera il salto di ruolo era la regola. Che si chiamassero Gronchi, Leone e Pertini (con il corollario da mondo antico di filatelìa in rosa, corna ai cronisti, false tangenti o memorie partigiane) o promettessero con la lucente giubba della Seconda Repubblica la quieta prosecuzione delle ombre della Prima, paracadutarsi al Quirinale dallo scranno più alto di Montecitorio era di non di rado una pura formalità.

La liturgia si dipanava in estenuanti pomeriggi fitti di trattative e franchi tiratori, solo successivamente aggirati dal metodo (o "metodio", secondo la versione del dotto Filippo Ceccarelli) affinato da Ciriaco De Mita. Libagioni a strafottere per i parlamentari ed ettolitri di allegre bollicine estratte dalle botti per ingentilire l'aria. Obiettivo, persuadere gli irragionevoli idealisti e piegare le asprezze della politique officielle all'unica poetica che Roma, contasse davvero. La politica del centro-tavola, di un compromesso eterno che trascinò altri due ex presidenti della Camera Scalfaro e Napolitano a convocarle entrambe per contratto dal Colle più alto a ogni nuvola, anche passeggera, nello scenario.


"CHE FAI, MI CACCI?"
Ora, nei giorni in cui gli strateghi falliti del Nazareno scaldano micce spente proponendo mercimòni di ibrida natura ai pirati di Grillo e il nome di Marta Grande, 25 anni, ipotetica candidata alla sedia che fu per 12 anni della severa Nilde Jotti (la ‘Migliore', in tutti i sensi) dà qualche vertigine, alla mente tornano le parabole brucianti e le gioventù bruciate dei suoi illegittimi eredi nella "Camera ardente" di Montecitorio.

Gente che non aveva gestito il Vietnam o il terrorismo, aveva visto Dossetti, La Pira e Nenni solo nei libri e nei libri resterà come esempio di rapidissima autocombustione. Lo choc di Fini, preso a schiaffi dal ‘corpo votante', travolto dalle dame licenziate dal castello di Gaucci, dai coralli sudamericani, dalle trame dei colonnelli e da una ribellione al padrone urlata tra cromature improbabili (volto color mattonella, cravatta fucsia), giunta con lo stesso ritardo dei treni preunitari.

Diciassette anni. Troppi per credere al sincero ravvedimento, abbastanza per trasformare in nèmesi l'interrogativo. "Che fai, mi cacci?". Sì, infine l'hanno cacciato. Con un risultato, lo 0,4 per cento, che elimina i Bocchino dal quadro e fino a esaurimento della benzina, anche se la Bègan è fuggita altrove, li restituisce alle scorribande "vitellone" in scooter sulla costiera amalfitana.

Un'erosione del consenso che accomuna Gianfranco, l'ultimo occupante della serie maledetta, alla ragazzona lombarda che inaugurò la tragedia nel 1994 esponendo corpo e ridicolo alla "Serra" dello scherno a posteriori, la specialità della casa: "La devota Irene Pivetti non conobbe Padre Pio" si dondolò il Michele dall'amaca di Rep: "Ma è la prova vivente dell'esistenza dei miracoli: nessuno può spiegare razionalmente come poté diventare Presidente della Camera".

Dopo lustri di oblìo, sobriamente annunciata da Mario Baccini: "È l'alternativa al montante Neopaganesimo", Irene Pivetti dei Cristiano Popolari ha ottenuto 617 voti alle recenti regionali del Lazio. Lo 0,64 per cento. Si ripresentava dopo un decennio di assessorati calabresi, comparsate tv, borchie, travestimenti da catwoman, latex e frustini propagatori di inedite rivolte e comunicati sindacali un po' bigotti dei giornalisti di Mediaset-Videonews: "Pensavamo a un programma di informazione, ci ritroviamo una figurina di Lele Mora". Un tonfo che nell'analisi della Pivetti: "Grillo è l'esecutore testamentario della Seconda Repubblica" ha il pregio di non allontanarsi troppo dal vero.


L'ULTIMO BRINDISI DI SILVIO. (V COME VENDETTA)
I defunti di domani, gli automi cresciuti al credere, obbedire, combattere (e soprattutto pigiare un tasto in "conformità con le direttive del capogruppo"), gli allievi talvolta infedeli iscritti alla scuola di Ray Bradbury e già evocati dal bravo Stefano di Michele in un recente ieri che pare già preistoria ("Perché imparar altra cosa che non sia premere bottoni, girar manopole, abbassare leve, applicare dadi e viti?") somigliano a formiche impazzite.

A esodati dal privilegio che non riconquisteranno. A torme smarrite e preoccupate, non diverse dai deputati abbrutiti dalle schermaglie tra correnti dipinti da un caustico omologo di stirpe Dc, Guido Gonella: "Ozio senza riposo, fatica senza lavoro".

Immobili eppure schiacciati dal peso della precarietà. Travolti da un'anacronistica prudenza. Chi può dire dove saranno a ottobre? Dove saranno Grillo, Renzi o Bersani? Che fine faranno le polemiche sul compenso di ottantamila euro lordi annui alla signora Renata Cristina Mazzantini, consulente artistico e architettonico della Camera ( "arredatrice" , per semplificare) con contratto dal 2001 (ora esteso al 2015) o le risse gemelle sulla decennale fruizione dei benefits (uffici, segretarie, terrazze sui tetti di Roma) concesse di diritto agli ex presidenti? Nessuno.

Possiamo solo immaginare in che scaffale della storia i posteri collocheranno le resistibili verità declinate da Violante su Salò o da Pierferdinando Caltagirone in Casini al tempo della sua presidenza, in astiosa risposta a Berlusconi: "La prima Repubblica ha prodotto anche dei risultati straordinari e meravigliosi". Ipotizzare che nonostante tutto, Berlusconi covi ancora un po' di hangover e abbia mentito un'altra volta.

Orfano delle bandierine di Emilio Fede, in occasione del redde rationem definitivo (la fine di un sistema, da qualsiasi parte si voglia osservare l'agitato pre-Titanic di questi strani giorni) Silvio aveva fatto davanti agli schermi che rimandavano voti reali e proiezioni, una solenne promessa.

L'unica tra le mille balle blu di ogni maledetta elezione a cui dar immediato seguito. La prima riforma del suo quinto esecutivo. Ubriacarsi in caso di mancata elezione di Monti, Casini e Fini. Ci è andato vicino, ma come sempre, ha finito di vincere. Ad Arcore, nel contesto di una "cena elegante" ha dato fondo alla cassa. Spalancando l'ipotesi di un nuovo miracolo italiano dall'acre retrogusto di vendetta. Anche al decimo cicchetto, pur conversando con Cicchitto, il bicchiere sembrava sempre mezzo pieno.

 

 

 

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