ECCO COME I RANCORI E I LIVORI DEL MAGO "DALEMIX" FRENANO LA CORSA DI DRAGHI AL COLLE - L'EX PREMIER POST-COMUNISTA E FILO CINESE EVITEREBBE VOLENTIERI IL TRASLOCO A QUIRINALE DI SUPERMARIO, CHE È UN ATLANTISTA DI FERRO. NEL PD DA 40 A 60 GRANDI ELETTORI DEM PRONTI A SILURARE DRAGHI (E LETTA). I RAPPORTI MAI ROTTI CON PROVENZANO E LA SPONDA CON CONTE CONTRARIO ALL’ASCESA DI SUPERMARIO AL QUIRINALE...
Antonio Polito per il "Corriere della Sera"
massimo dalema e gli straordinari successi del partito comunista cinese 3
Il Gran Maestro, il vero Obi-Wan Kenobi del Partito del Risentimento è naturalmente Massimo D'Alema. La sua ultima uscita è un piccolo capolavoro del genere. Per poter rientrare nel Pd chiarisce subito che ha fatto bene ad uscirne. E non maltratta solo Renzi e i renziani, definiti una «malattia», seguendo uno stile che applica le categorie della psichiatria alla lotta politica e che risale ai bolscevichi.
Ma aggiunge anche che la malattia si è curata da sola, così da mettere in chiaro che non solo i renziani erano una tabe, ma anche gli anti-renziani rimasti nel Pd erano dei fessi. Tra costoro, ovviamente, include l'attuale segretario del Pd. L'unico che aveva capito tutto era lui. Si deve dunque solo a un destino cinico e baro se il successo elettorale del suo partitino è tale da consigliare di ri-scioglierlo nel Pd.
massimo dalema e gli straordinari successi del partito comunista cinese
Un trionfo del risentimento capace perfino di suturare per un istante quello storico tra Letta e Renzi, che si odiano sì fraternamente, ma non quanto tutti e due odiano D'Alema. Intendiamoci: il risentimento non è mai stato qualcosa di estraneo alla politica. Ne è anzi una componente fondamentale. Nella patria della democrazia, gli Stati Uniti, è anzi diventato l'anima di una guerra vigile strisciante chiamata «polarizzazione». Ma forse è per questo che furono inventati i partiti di massa, proprio per metabolizzare il desiderio di rivalsa che inevitabilmente avvelena le personalità in conflitto.
E niente come la storia delle grandi battaglie per il Quirinale sta lì a dimostrare che invece, in quella arena, devi proprio «secolarizzare» gli odii del passato e sublimarti in un'altra dimensione, che è per l'appunto politica. Per esempio: non dev' essere stata cosa da poco per Craxi, alfiere del partito della trattativa durante il caso Moro, eleggere nel 1985 come presidente Francesco Cossiga, che invece della linea della fermezza era stato l'inflessibile esecutore dalla postazione di ministro dell'Interno. E così il Psi votò per l'uomo il cui nome la sinistra parlamentare scriveva sui muri con la K e le SS.
E il Pci votò per l'ex premier che aveva aperto la porta di Comiso agli euro-missili americani, puntati contro l'Urss. Perché sia Craxi sia Natta capirono che era il male minore. Risultato: 752 voti al primo scrutinio, su 977. Né deve essere stato facile, qualche anno prima, nel 1964, per Pietro Nenni, candidato delle sinistre lanciato in testa alla gara dalla faida democristiana, mettersi da parte a un certo punto e chiedere sia al suo partito che ai comunisti di votare per Giuseppe Saragat, fratello-coltello della scissione socialista, l'uomo che se n'era andato per fondare un partito concorrente, il Psdi, e togliergli i voti.
giuliano amato massimo d'alema
Eppure Nenni lo fece. Perché per la sinistra era meglio Saragat che Leone (il quale poi si prese la rivincita sette anni dopo). E invece oggi che i partiti non ci sono più, o sono simulacri alquanto vuoti di quelli di un tempo, nessuno appare più in grado di «secolarizzare» il conflitto, e la politica sembra diventata un sequel di «The last duel», un insieme di piccole mischie personali che formano insieme una grande zuffa collettiva, la cui polvere copre ancora ogni previsione possibile sull'elezione del presidente della Repubblica a gennaio. Oggi le ripicche motivano la politica, invece che il contrario.
E si vede a occhio nudo che Giuseppe Conte non vuole Draghi al Quirinale perché in fin dei conti è l'uomo cui ha dovuto cedere Palazzo Chigi, e la «promozione» dell'uno farebbe risultare ancor di più la «bocciatura» dell'altro, finora non riscattata nella nuova veste di capo politico dei Cinquestelle (dove entra in scena il risentimento di Di Maio, a sua volta ex).
E si vede a occhio nudo che Goffredo Bettini non l'ha ancora digerita quella fine del governo giallo-rosso (o rosa), e vorrebbe tanto aiutare il suo compagno di cordata di allora, anche se aiutare Conte è davvero difficile. Però Bettini, che una storia con i partiti di un tempo ce l'ha avuta, è tra i pochi che sembra ancora capace di «politicizzare» il risentimento. E infatti per quanto lavori anche lui contro Draghi per ragioni non molto diverse da quelle di D'Alema, e cioè «non è uno di noi», «non è un politico», sarebbe anche disposto a lasciar perdere se solo Draghi facesse un atto di sottomissione e di ossequio alla politica dei partiti, ed entrasse nella compagnia da Presidente.
massimo dalema e gli straordinari successi del partito comunista cinese 1
Il risentimento, ovviamente, alligna a sinistra molto meglio che altrove. Vi trova il suo brodo di coltura ideale, perché la sinistra è talmente carica di storia, di ideologie, di correnti, e dunque di duelli, da aver avuto il tempo di sedimentare risentimenti cosmici. Il centrodestra molto meno. In Italia, poi, il centrodestra si identifica fin dalla sua nascita con Berlusconi, si potrebbe dire che «è» Berlusconi. Dunque il risentimento non si può manifestare sotto forma di lotta politica. Potrà venir fuori solo come nuova ed estrema personalizzazione: e cioè sotto forma di un centinaio di franchi tiratori al momento del voto per il Cavaliere.
L'EFFETTO D'ALEMA NEL PD: FRANCHI TIRATORI ANTI MARIO
Francesco Boezi per "il Giornale"
«Non ha più il potere di una volta ma, quando parla lui, tutti zitti e mosca». Lui è Massimo D'Alema, che ha appena annunciato l'intenzione di rientrare nel Pd, mentre quelli che tacciono in religioso silenzio sono alcuni tra i parlamentari Dem. La voce arriva dal Nazareno e, più nello specifico, dall'ala zingarettiana: il leader Maximo non ha più la facoltà di fare il bello ed il cattivo tempo ma conserva un certo tasso di potere attrattivo, in specie tra i più giovani. Il che, com' è ovvio di questi tempi, può giocare un ruolo pure in funzione del Quirinale. Il «Dalemone», a questo giro, può significare di nuovo franchi tiratori.
Tra le fila del Pd c'è chi assicura che siano almeno una quarantina i parlamentari disposti ad assecondare l'ennesimo piano cervellotico dell'ex premier: «Dipende dalle opzioni», fanno presente dall'ala centrista dei Dem. «Potrebbero addirittura arrivare a sessanta», incalzano. Certo è che i precedenti non giocano in favore del buon umore del segretario Enrico Letta: se è vero, come ha ricordato Matteo Renzi, che tutti i candidati al Colle passati per la benedizione di D'Alema sono stati «impallinati», è vero pure che ad «impallinare» Romano Prodi nell'aprile del 2013, con l'operazione dei 101, è stato anche, se non soprattutto, l'ex leader Maximo. Circola soprattutto un nome come sponda: quello del vicesegretario Giuseppe Provenzano. «L'ex ministro deve di più ad Orlando, però è noto come i vari staff siano composti da dalemiani. I due si parlano eccome», annota la fonte zingarettiana. La corrente dei giovani non vede l'ora di contarsi tramite il congresso nazionale ed il giro di boa per il Colle può rappresentare una prova generale.
Il senatore Salvatore Margiotta non ci gira troppo attorno e prova a smorzare la questione: «Al Senato pochi - esordisce, riferendosi ai dalemiani - ed eventuali franchi tiratori non sarebbero addebitabili a lui». Infatti la partita si gioca per lo più tra gli eletti della Camera, dove appunto risiedono gli esordienti. Margiotta aggiunge: «Esistono persone che lo stimano ma con nessuno ha o ha avuto un rapporto politico stretto».
In realtà, la storia dei «miglioristi» del Pd, a partire dal congresso Renzi-Cuperlo, è tutta segnata dal rapporto D'Alema-Orlando. Qualcosa che risulta difficile da destrutturare. Fonti vicine alla Fondazione Italianieuropei, del resto, confermano al Giornale l'esistenza di un dialogo che non si è mai interrotto. È proprio agli uomini vicini al ministro del Lavoro che ci si riferisce quando, quasi sottacendo, dal Pd arrivano a parlare di «coperta corta» attorno a Mario Draghi.
Se Letta dovesse provare a blindare l'intesa con i riformisti - leggasi pure Base riformista sull'elezione dell'attuale premier al Colle, l'ala sinistra del partito, magari manovrata da D'Alema, potrebbe portare in dote qualche sorpresa. Per essere precisi: tra una quarantina ed una sessantina di sorprese. Anche perché una parte del Pd nicchia: «Non sono interessato a misurare il peso di D'Alema nel Pd - dice il senatore Dario Stefano - quanto semmai a capire se il Pd si sia liberato da quel condizionamento che ha sempre scelto di privilegiare la Ditta piuttosto che un campo largo, progressista e riformista». L'ex premier post-comunista eviterebbe volentieri il trasloco di Mario Draghi, che è un atlantista di ferro.
L'ex segretario dei Ds è invece un filo-cinese. Quale occasione migliore per fare un favore al «Dragone» se non quella di organizzare un «Dalemone» per ridimensionare le velleità quirinalizie dell'attuale Pdc? Un bel combinato disposto, come usano dire i giuristi.
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