DALLA POLITICA AL POKER, TUTTO E’ MATEMATICA – I SEGRETI DI NATE SILVER, IL GURU STATISTICO CHE HA “CALCOLATO” LA VITTORIA DI OBAMA

Stefania Vitulli per "Il Giornale"

Blazer nero, mocassino in pelle, camicia a microscopici quadretti rosso fiammante. Look da ragazzo della Milano bene anni Ottanta su un faccino da nerd. Immerso nella bolgia di giornalisti e guru dell'informazione globale invitati al Festival di Internazionale a Ferrara, dove lo abbiamo incontrato.

A vedere per la prima volta Nate Silver - il 35enne che quando ne aveva 30 ha scommesso che con il suo blog «FiveThirtyEight» avrebbe azzeccato il vincitore delle elezioni americane e ci è riuscito; che nel 2010 è stato «comprato» insieme al suo blog dal colosso New York Times e ne ha incrementato il successo online del 15%; che tre mesi fa ha preso su il suo blog e se n'è andato dal colosso NYT sbattendo la porta - ecco, a guardare Nate Silver per la prima volta si è conquistati dalla sua simpatia. La stessa che ha travolto i primi fan di Steve Jobs. L'opposto dell'invidia che ha irretito gli amici-nemici di Mark Zuckerberg.

Silver, autore di Il segnale e il rumore: arte e scienza della previsione (Fandango, pagg. 672, euro 24,50, trad. M. Giffone, in uscita il 7 ottobre), 200mila copie vendute negli Usa, appartiene a quella categoria di intelligenze singolari, caparbie e solitarie sfornate negli Stati Uniti dalla Silicon Valley in poi e che si sono applicate a far sì che il digitale, nei contenuti e nella forma, conquistasse il mondo. Intelligenze che nel suo caso si sono risolte in un binomio quanto mai affascinante: pokerista e statistico. Ha vinto con il poker online 400mila dollari per creare un sistema previsionale per il baseball. Poi ha pensato di usarlo per le elezioni politiche. E non ha smesso di giocare.

Ci dica subito se conosce il modo per vincere a poker.
«Le posso dire perché si perde. La gente guarda il poker alla tv e pensa che sia un gioco psicologico. Ma è un gioco matematico: 10% di elementi psicologici, 90% di analisi logico-statistica, probabilità, percorsi deduttivi e un sacco di possibilità che si possono analizzare. Descriverlo è molto più complicato che farlo. Però si può fare. Invece la gente va al casinò e pensa davvero che potrebbe vincere basandosi sull'intuizione».

Viviamo nel caos, i numeri potrebbero semplificarci la vita. Invece li rifiutiamo. Perché?
«Non riusciamo a sconfiggere l'impulso a doverci sempre spiegare il perché delle cose. Prenda le religioni. Vogliono spiegare il mondo e quindi semplificarlo, metterlo alla portata di tutti. Ma la semplificazione non ha nulla a che fare con la realtà. Il mio libro cerca di riportarci sulla terra, con un po' di umiltà. E quindi, a sua volta, non è utilizzabile per capire l'universo».

Per predire il suo futuro usa la statistica?
«La statistica ha successo perché fa presumere a chi non la conosce che potrà capire più velocemente che cosa gli accadrà e più velocemente decidere. Gli americani ormai chiedono solo velocità, masticano velocità, salvo poi non saperla gestire. In Italia se un appuntamento è alle tre e sono già le tre e mezza vi prendete anche un caffé e ve lo godete pure».

Disapprova?
«Per niente. Mi si adatta alla perfezione. Io non amo vivere velocemente: quando prendo decisioni importanti ne parlo con gli amici, invece di correre dappertutto in cerca di consulenze. Per scrivere il libro ci ho messo tre anni e mezzo, per lasciare il NYT sette mesi».

Ecco, il NYT... Se n'è andato per sentirsi ancora un giovane indipendente?
«Non è stata una scelta filosofica, ma di business. Ho creato il blog per dimostrare che si può fare business sostenibile, pagare la gente che lavora per te grazie ai tuoi profitti. Ma al NYT il management è incapace, al contrario dei giornalisti. E se continua così il giornale andrà sempre peggio».

Molti dicono che il giornalismo di carta è morto. Lei che cosa prevede?
«Negli Usa il giornalismo è diventato gossip o political insider. La gente chiede una interpretazione della verità. Ma per ottenerla ci vuole trasparenza e capacità di analisi. Il reporting continuerà, il giornalismo invece è cambiato per sempre. Nei prossimi vent'anni prevedo che New York Times, Washington Post, Wall Street Journal e altre grandi testate potranno sopravvivere. Terrà duro anche il giornalismo scientifico e altamente specializzato. Ma in mezzo non rimarrà nulla».

E il futuro della statistica?
«Eccellente. C'è sempre più domanda di statistici. E rimarrà una domanda continua. Il mio pubblico è fatto di gente che attraverso le storie vuole conoscere la verità, gente più giovane di quella che di solito legge i giornali e a cui non basta la "copertura" informativa sulla politica per capire ciò che accade. Il mercato chiede numeri e dati e solo gli statistici possono darglieli».

I numeri sono sempre oggettivi?
«Diciamo che se ci sono molti dati - database numerici e ricorrenze temporali - su cui ragionare, il livello di affidabilità di una previsione è alto. Inoltre, se effettuiamo analisi su beni semplici che prevedono scelte precise, è probabile che questi siano rivelatori di altre variabili di scelta legate una personalità, che è una realtà complessa. Allo stesso tempo, avere più informazioni non sempre ci permette di fare previsioni più accurate. Esiste sempre la possibilità che il tutto si incasini. Ci sono cose, come spiego nel mio libro, che al momento possiamo prevedere con buone probabilità di successo. Il tempo, ad esempio».

Ma è il denaro a far girare il mondo.
«Il prezzo delle azioni e in generale l'andamento dell'economia sono tra le nostre peggiori performance predittive. Crediamo di essere bravi a farci previsioni perché hanno a che fare con i numeri, ma se i numeri non sono strutturati secondo ricorrenze non sono affidabili. L'ultima crisi finanziaria è un evento "unico" nella storia per dinamiche».

Ancora numeri. Ma qual è il contrario dei numeri?
«Qualcuno direbbe che è l'intuizione. Ma la domanda è troppo filosofica per avere una sola risposta».

 

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