ASSALTO ALLE TOGHE! LE INCHIESTE SULLA FAMIGLIA RENZI E L’OSTINAZIONE DELLA PROCURA DI PALERMO SUL PROCESSO STATO-MAFIA, SPINGE MATTEUCCIO E RE GIORGIO A UN SUPER-ASSE PER RIFORMARE LA GIUSTIZIA E DISINNESCARE LE TOGHE ALLEGRE
Liana Milella per “la Repubblica”
«In gioco c’è l’autonomia e il primato della politica. E Napolitano è d’accordo con me». Matteo Renzi da New York coglie al volo il pressing del Quirinale per la riforma della giustizia. Lo scontro con le toghe ormai è a 360 gradi. Del resto la convocazione del presidente della Repubblica come testimone nel processo Stato-Mafia, ha più che indispettito l’inquilino del Colle. Anche il premier è preoccupato ma ora sa di poter contare sul capo dello Stato anche su questo versante.
Pure l’umore delle toghe è plumbeo. ma per il motivo opposto. L’asse Napolitano-Renzi, mai evidente come ieri in tutta la sua forza, li consegna a una riforma scritta dal governo e che il Quirinale condivide e sollecita. «Napolitano - è il ragionamento del capo del governo - ha difeso la nostra linea, è evidente che ci sta dando una grande mano in un momento complicato. Noi dobbiamo andare avanti decisi, senza più esitazioni». Orlando, al Quirinale, si apparta con il capo dello Stato. Parlano della riforma della giustizia. Il presidente la caldeggia. Dicono che gli abbia detto: «Bisogna recuperare i tempi morti».
Di certo Napolitano è infastidito per come il tribunale di Palermo ha voluto inserirlo nell’inchiesta. Per la prima volta un capo dello Stato è chiamato a deporre. Pur avendo detto chiaro, e per iscritto, che non ha nulla da dire. Non esistono precedenti. Cossiga e Scalfaro avevano rifiutato di deporre in un processo. Per la prima volta nella storia del Quirinale. Quando, allora, la notizia della decisione dei giudici siciliani arriva cambia il corso della giornata.
La coincidenza è fatale. Poteva essere un giorno di festa per la magistratura sul Colle. È diventato quello dei musi lunghi. Per la seconda volta in pochi giorni, dopo l’altolà di Renzi in Parlamento sugli avvisi di garanzia «citofonati o inviati a mezzo stampa», è un giorno che cambia definitivamente la storia dei rapporti tra il Pd e le toghe. “Colpa” di Palermo, ovviamente.
Tant’è che quando proprio il magistrato che ha mandato a processo l’inchiesta Stato-mafia, il gip Piergiorgio Morosini, divenuto nel frattempo togato del Csm per Magistratura democratica, si avvicina per giurare nelle mani del capo dello Stato, in platea corre più di un brivido.
Il presidente lo guarda gelido, tutto dura un attimo. Morosini torna al suo posto. Ma risuonano le parole durissime di Napolitano sui magistrati, una «casta chiusa», protagonisti di una giustizia «lenta e caotica», dal «funzionamento insoddisfacente », toghe divise in correnti, perse «in estenuanti e impropri negoziati alla ricerca di compromessi e malsani bilanciamenti».
LA SEDE DELLA PROCURA DI PALERMO
Non è Renzi che parla, ma è Napolitano. Eppure le sue parole sembrano proprio quelle del presidente del Consiglio. Ormai è noto che il feeling Pd-magistratura è un lontano ricordo. Il discorso di Napolitano lo certifica. A palazzo Chigi annuiscono soddisfatti, perché la sintonia col presidente è ormai consolidata. Dice Renzi: «L’autonomia e il primato della politica, non solo sui problemi della giustizia: questa è la partita più importante che stiamo giocando. Non possiamo perderla. È importante che un uomo con la storia di Napolitano sia dalla nostra parte».
Certo, non solo sulla giustizia, ma anche sullo scontro per l’articolo 18 e la riforma del lavoro, nonché sulle riforme costituzionali e sulla la legge elettorale, il Quirinale ha fatto asse con Renzi. «Perché se ne vuole andare presto» dice più di un maligno. Nel Pd piace pensare invece che ci sia una visione sintonica della politica, delle necessità urgenti del Paese, delle riforme da fare. Ecco cosa si può strappare al vice segretario del Pd Lorenzo Guerini: «L’invito ad accelerare sulle riforme significa che Napolitano condivide l’obiettivo di un cambiamento strutturale del Paese».
«Purtroppo saremo noi a farne le spese per primi» commentano i magistrati basiti sulle mailing list. Intendiamoci, Napolitano era stato duro anche altre volte. Ma adesso la sua determinazione è estrema. Nel suo staff giurano che il discorso per il Csm era già pronto quando il presidente ha appreso di essere stato convocato come teste. «Nessun cambiamento » assicurano. Ma questo, anziché attenuare l’effetto delle sue parole, lo centuplica. Perché Napolitano, con assoluta evidenza, sta nettamente dalla parte della riforma della giustizia.
Sanno bene, al Quirinale, come i famosi 10 punti approvati alla fine di agosto non sono giunti integralmente in Parlamento. Un ritardo le cui colpe, almeno a sentire Orlando e i suoi, non sono da addebitare alla Giustizia. Di mezzo ci stanno le resistenze degli alfaniani di Ncd che, come per l’autoriciclaggio e il falso in bilancio, hanno fatto pressioni per cambiare i testi. Ci sono i malumori del Mise della Guidi, le richieste del Mef di Padoan. Un mix che sta frenando la riforma.
matteo renzi con il padre tiziano
Per questo Napolitano spinge il governo a chiudere in fretta la partita. E Renzi a sua volta spinge sui suoi ministri. Lo sanno anche i magistrati che già cercano di correre ai ripari. «Ci batteremo punto su punto. Non possono pensare che ci faremo mettere sotto i piedi così». Ma stavolta, come accadeva ai tempi di Berlusconi, non c’è per loro la porta sempre aperta al Quirinale. Lì c’è una porta chiusa. E la convocazione al processo di Palermo ha sbarrato anche l’ultimo spiraglio.