di battista pd marchini meloni

CAMPIDOGLIO A 5 STELLE? - PARTE LA CORSA PER IL DOPO-MARINO: IL M5S VOLA NEI SONDAGGI E PENSA A DI BATTISTA (MA SULL’ISIS HA CAMBIATO IDEA?) - A DESTRA DERBY MARCHINI-MELONI - PD ALLO SBANDO, LA PRIMAVERA SI ANNUNCIA PIENA DI TRAPPOLE PER RENZI

Laura Cesaretti per “il Giornale”

 

campidogliocampidoglio

«Che faremo dopo Marino? L'unica è stare fermi un giro, non possiamo fare molto altro». Può sembrare paradossale, ma la risposta data da un parlamentare romano fotografa bene la situazione in cui si trova nella Capitale il Pd.

 

Il premier sul caso non vuole aprire bocca, a Bologna evita i cronisti e le domande sulla bolgia infernale romana. Ma quando ieri mattina i messi che fanno la spola tra lui e Ignazio Marino (con cui Matteo Renzi si rifiuta di parlare) gli hanno riferito la richiesta del sindaco per dimettersi, ossia una dichiarazione di plauso e sostegno per il suo operato, pur nella presa d'atto del necessario addio, la replica del capo del governo è stato a dir poco recisa: «Ditegli che se lo scorda, non esiste proprio».

 

DI BATTISTADI BATTISTA

Con i suoi, che gli chiedevano ansiosamente cosa accadrà poi, Renzi non si sbottona: «L'importante ora è toglierselo di torno, poi si vedrà: una cosa per volta». E già l'impresa era difficile così: per tutta la giornata il sindaco ha resistito, «asserragliato al Campidoglio come Allende alla Moneda», secondo la descrizione di Paolo Cento di Sel. Alla fine l'atteso annuncio di dimissioni è arrivato.

 

Ora per il Pd si apre una fase di navigazione a vista. Lo schema di gioco che Renzi aveva pensato mesi fa - dimissioni di Marino, commissariamento della Capitale col prefetto Gabrielli a gestire il Giubileo, ed elezioni nel 2017, magari con lo stesso Gabrielli o con un nome capace di intercettare l'antipolitica come Roberto Giachetti - si bloccò all'epoca davanti al niet del commissario romano Matteo Orfini.

DI BATTISTADI BATTISTA

 

Renzi, sia pur di malavoglia, accettò di tentare il «rilancio» della giunta («Perché Orfini, che ha un suo nutrito sottogruppo, si sarebbe messo di traverso nei voti parlamentari», spiegano i renziani romani, pronti ora a chiedere un congresso straordinario nella Capitale e una resa dei conti col presidente Pd), e ora quella ipotesi è bruciata.

 

«Si andrà per forza al voto la prossima primavera, con le altre città», prevede il viceministro Giacomelli. A meno che, azzarda Cento, «Renzi non faccia un decreto per commissariare Roma durante il Giubileo e rinviare il voto». Ma è un'ipotesi «politicamente impraticabile», secondo molti nel Pd.

ALFIO MARCHINIALFIO MARCHINI

 

C'è chi azzarda la candidatura di Cantone, chi fa il nome di Franceschini o di Gentiloni, ma «nessun politico accetterebbe di andarsi a schiantare nel voto», si ragiona nel Pd. «E vedrete se Marino non cercherà di candidarsi contro di noi con una sua lista», prevede la renziana Lorenza Bonaccorsi. Da cui la battuta scorata che circola: «Meglio stare fermi un giro, e magari appoggiare una candidatura “civica” fuori dagli schieramenti».

 

C'è Alfio Marchini che sta lavorando proprio su questa ipotesi di «modello Venezia», con appoggio trasversale, e sul cui nome si ragiona anche nel centrodestra, in alternativa alla candidatura di destra dura, ma in chiave giovane e donna, di Giorgia Meloni. E poi c'è il convitato di pietra grillino, che in un turbinio di autocandidature (da Di Battista alla Lombardi) si frega le mani in attesa di raccogliere i frutti delle disgrazie altrui, pur temendo assai la prova del governo.

giorgia meloni con il nuovo gattogiorgia meloni con il nuovo gatto

 

La primavera elettorale si presenta ardua per il premier, che ha tutto da perdere visto che - da Roma a Milano a Napoli - si va al voto in città tutte ora in mano alla sinistra, con la minoranza interna non aspetta altro che una sconfitta per ricominciare la guerra. Ma Renzi ha di riserva una carta importante: il referendum sulla Costituzione, che nei suoi piani si terrà a pochi mesi di distanza dalle Comunali. Lì sarà lui, in prima persona, a chiedere il sì ai cittadini sulla «sua» riforma, e a rivendicare il risultato come un voto nazionale di fiducia al suo governo.

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