Andrea Galli per corriere.it
Alle quattro della notte tra martedì e mercoledì, l’architetto e imprenditore Alessandro Giovanni Maja, specializzato in ristrutturazioni di bar e interior design, ha disposto sul tavolo le armi casalinghe della pianificata strage e uscita di scena: un cacciavite, un martello, un trapano e un coltello.
Battendolo con il martello, il 57enne si è servito del cacciavite per uccidere la moglie Stefania Pivetta, d’un anno minore e venditrice ambulante di prodotti di bellezza, che riposava sul divano, sotto un plaid, al piano terra; con gli identici strumenti e identica modalità d’azione, Maja ha assassinato la figlia 16enne Giulia, che dormiva nella stanza al piano di sopra, e ha disceso le scale convinto d’aver ammazzato anche il primogenito Nicolò, 23 anni, ugualmente a letto e nella propria camera. A quel punto, il piano era realizzato. Mancava l’ultimo atto, cioè eliminare se stesso. Con trapano e coltello.
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Maja si è però soltanto ferito, prima di uscire in mutande e urlare in via Torino, a Samarate, 16mila abitanti in provincia di Varese, non lontano dall’aeroporto di Malpensa: «Finalmente ci sono riuscito». Ha ammesso nell’immediatezza le proprie responsabilità, di fatto confessando, ma non si è ripetuto nell’ufficialità, quando è stato interrogato in ospedale, dopo la suturazione dei tagli sui polsi e sull’addome, non profondi (s’ignora se davvero volesse togliersi la vita o sia stata una sorta di messinscena).
L’antecedente stato della famiglia residente al civico 32, in una villetta a due piani con giardino e piccola piscina, non aveva generato interventi delle forze dell’ordine. Se litigi c’erano stati nella coppia, poiché è emerso un rapporto logorato tra moglie (sostenuta dai figli) e marito (davanti allo scenario di una ormai inevitabile separazione), questi non erano sfociati in denunce o richieste di aiuto alle autorità. In pari modo, i vicini di casa, richiamati dalle urla di delirio di Maja che ripeteva la sequenza di morte e ne esultava, hanno riferito di non aver mai udito l’eco di tensioni famigliari. All’ingresso dei carabinieri (le 7.30), l’intera abitazione era una scia di sangue.
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Le indagini, la droga, il lavoro
Nicolò versa in condizioni disperate, da valutare l’impatto dei colpi ricevuti al cranio, che potrebbero comprometterne l’esistenza dal punto di vista neuro-motorio. Gli investigatori escludono il rinvenimento di tracce di droga, ma rimangono da capire due circostanze.
La prima: se Maja, la cui società ha sede sui Navigli a Milano, ha firmato con il suo team lavori in Italia e nel mondo, in stazioni ferroviarie e scali a cominciare dal medesimo aeroporto di Malpensa, abbia assunto stupefacenti nella fase di preparazione del massacro.
La seconda: se Maja fosse seguito da uno psichiatra, magari all’insaputa della famiglia, alla quale è convinto d’aver dato ogni tipo di sostegno e aiuto possibile, e d’esser stato «ringraziato» con l’invito ad andarsene una buona volta e lasciare in pace Stefania, che al termine di un lungo periodo senza lavoro aveva voluto rimettersi in gioco, anche consolidando una personale posizione economica per non dipendere in via esclusiva dal marito.
La ricostruzione dei fatti
Le autopsie forniranno ulteriori elementi, o quantomeno aiuteranno a meglio ricostruire, per quanto inutile essa sia, la reale dinamica dei fatti. Il letto matrimoniale era intatto. Maja potrebbe esser rientrato tardi — lo faceva spesso, in seguito a serate nei locali con i clienti —, essersi spogliato e aver agito.
stefania pivetta, moglie di alessandro maja
Probabile che abbia proceduto con velocità, tenendosi il resto della notte per valutare se colpirsi. Forse ha atteso. Forse è svenuto. Poi il risveglio. E quell’annuncio dal balcone dato al quartiere intero: «Finalmente ci sono riuscito».
(ha collaborato Andrea Camurani)
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