SALVATE SALVINI (DA SE STESSO) - "IO CREDO SIA GIUSTO CHE TORNI A FARE IL MINISTRO DELL'INTERNO. NON MI INTERESSANO ALTRI INCARICHI, IN ALTRI MINISTERI" – IL POVERINO PROVA A BUTTARLA LÌ (IN CAMBIO DI COSA?) MA SA BENE CHE DA ALMENO UN PAIO DI SETTIMANE IL DIPARTIMENTO DI STATO AMERICANO, AFFRONTANDO IL "DOSSIER" ITALIANO, HA FATTO CAPIRE IN VIA UFFICIOSA CHE NON GRADISCE UNO DEI POLITICI OCCIDENTALI PIÙ VICINI A PUTIN IN UNA POSIZIONE STRATEGICA DI GOVERNO. E IL VIMINALE STRATEGICO LO È, AL PARI DI ESTERI E DIFESA...
PER SALVINI OBIETTIVO RESTA VIMINALE: "NON MI INTERESSANO ALTRI POSTI"
Stefano Baldolini per Repubblica.it
Resta quello del ritorno al Viminale l'obiettivo di Matteo Salvini. Il leader della Lega, a quanto apprende AdnKronos, anche ieri, nella blindatissima riunione con i parlamentari eletti domenica scorsa dal partito - con tanto di cellulari 'sequestrati' ai partecipanti all'ingresso della Sala Umberto - ha chiarito il suo pensiero sul suo posto al governo:
MATTEO SALVINI E GIORGIA MELONI A CERNOBBIO
"Io credo sia giusto che torni a fare il ministro dell'Interno - avrebbe detto in sintesi nel suo intervento - . Credo che è un lavoro che so svolgere, che mi interessa fare, per cui sono finito pure a processo". Un appello che i suoi eletti, tra applausi e inni avrebbero fatto proprio, chiedendo da parte loro che il leader sia scelto per succedere alla Lamorgerse. Una sorta di mandato dei neo-eletti che il partito potrà far pesare nelle trattative in corso con la premier in pectore Giorgia Meloni, e gli alleati di Fi.
L INCONTRO TRA JOE BIDEN E MARIO DRAGHI VISTO DA CARLI 1
Quelle di Salvini "sono state parole di chiarezza, dirette" spiega uno dei partecipanti al meeting. Una richiesta su cui anche il capogruppo alla Camera, Riccardo Molinari si è speso: "Ha saputo fare quel lavoro, lo ha dimostrato ed è giusto ci torni". Poi Salvini avrebbe chiarito che non esistono subordinate: "Non mi interessano altri incarichi, in altri ministeri".
Ma la discussione sul nuovo governo, sulle caselle, che è appena iniziata, si dovrà muovere (anche) sulle ipotesi alternative. Nello specifico pesano i possibili interventi del Colle a lista dei ministri presentata e le vicende giudiziarie che riguardano Salvini, il processo Open Arms in corso a Palermo.
Qualcuno ricorda il monito dell'avvocato Giulia Bongiorno, che all'inizio della stagione dei processi per Salvini, alla fine del governo giallorosso, quasi tre anni fa, non nascose il timore per le conseguenze politiche ("i processi sono come brutte malattie", disse). Di fronte a questi problemi oggettivi il leader della Lega si impunta e prova a fare muro, spalleggiato dai suoi. Un modo per alzare la posta, in vista di altre soluzioni su cui potrebbe convergere, nella dialettica tra alleati che andranno insieme alla guida del prossimo governo.
SALVINI, NÉ VIMINALE NÉ FUORI DAL GOVERNO
Stefano Folli per “la Repubblica”
matteo salvini francesca verdini venezia 3
Tutti sanno, a cominciare dal diretto interessato, che Matteo Salvini non tornerà al Viminale. Le ragioni sono molteplici e anche queste abbastanza note. La principale è anche la più spinosa e perciò si preferisce parlarne il meno possibile.
Da almeno un paio di settimane il Dipartimento di Stato americano, affrontando il "dossier" italiano, ha fatto capire in via ufficiosa che non gradisce uno dei politici occidentali più vicini a Putin in una posizione strategica di governo. E il ministero dell'Interno strategico lo è, al pari di Esteri e Difesa.
Questo è il punto ben conosciuto da Giorgia Meloni, da Salvini medesimo e dall'intero vertice leghista. Ovviamente un "veto" esplicito non esiste, e come tale sarebbe inaccettabile, ma un "veto" implicito e indiretto ottiene lo stesso risultato ed è meno compromettente per chi lo solleva e per chi lo riceve. Ne deriva che il braccio di ferro sul Viminale è più apparente che reale.
Salvini ha issato una bandiera da sventolare davanti ai suoi elettori, ma è consapevole di doverla presto rinfoderare. In cambio di cosa? Qui si apre lo spazio per una trattativa. Il capo leghista rinuncia a un ministero che comunque non sarebbe alla sua portata, ma ottiene qualche poltrona utile al suo partito, bisognoso di risalire la china nel Nord che ha votato Giorgia Meloni.
La scelta è fra Sviluppo economico, Infrastrutture, Agricoltura. Sullo sfondo c'è anche il posto di Guardasigilli, che richiede tuttavia una candidatura dal profilo adeguato nonché un negoziato speciale come accade per tutti i dicasteri di particolare rilevanza. Idem per l'Interno che potrebbe anche essere assegnato a un altro esponente leghista ovvero a un "tecnico" scelto tra i funzionari dello Stato dal curriculum ineccepibile. Senza mai dimenticare il ruolo del Quirinale.
Si tratta dunque di materia delicata. Ma la minaccia salviniana di non entrare nell'esecutivo, limitandosi a un «appoggio esterno», sembra poco consistente. È chiaro che in fondo al suo cuore il leader del Carroccio cova il desiderio di danneggiare Giorgia Meloni, a cui promette soavemente «cinque anni operosi», ma che è pur sempre la rivale capace di dimezzargli l'elettorato (rispetto al 2018).
Evocare l'appoggio esterno vuol dire, come è noto, nessun ministro nel governo e le mani libere di votare o no i provvedimenti dell'esecutivo a seconda delle convenienze. Se Salvini fosse il padrone assoluto della Lega, e fosse libero di dar libero corso ai suoi rancori e alle sue frustrazioni, non c'è dubbio che la soluzione sarebbe verosimile: equivarrebbe a un annuncio di guerriglia parlamentare.
Ma Salvini è debole dopo il 25 settembre, più debole di quanto egli sia disposto ad ammettere. Inoltre non è più così libero: gli amministratori e i presidenti delle Regioni del Nord, coloro che subiscono le conseguenze più immediate della sconfitta, non hanno voglia di un eterno Papeete sotto diverse incarnazioni. Desiderano invece stabilità e misure utili al rilancio dell'economia in un momento drammatico.
LA PREVALENZA DEL CREMLINO - VIGNETTA DI ELLEKAPPA
Le volevano da Draghi e adesso le attendono a maggior ragione dal governo politico figlio di un mandato popolare. Se Salvini portasse la Lega fuori dalla compagine ministeriale prima ancora di cominciare il viaggio, condannerebbe il Carroccio al declino definitivo. Il che non significa che il cosiddetto "capitano" sia stato commissariato dai suoi, come pure si è detto.
Significa però che la sua gestione non può essere autocratica come prima. I risultati impietosi delle elezioni, uniti alla zona grigia dei rapporti con Putin - altro tema sconcertante per i piccoli e medi imprenditori del Nord -, lo obbligano ad agire con prudenza, se non vuole indispettire il partito. Che non gli perdonerebbe di aver fatto fallire il centrodestra adesso ovvero fra due o tre mesi. Per la gioia di un'opposizione frastagliata.