BATTERE UN RECORD VECCHIO 2.168 ANNI: CON IL SUO 13° ORO INDIVIDUALE, PHELPS SUPERA LEONIDA DI RODI, EROE DELLE ANTICHE OLIMPIADI - LA GRECISTA EVA CANTARELLA RACCONTA I GIOCHI: ‘ALL’EPOCA L’IMPORTANTE NON ERA PARTECIPARE, MA SOLO VINCERE. I PERDENTI SE NE ANDAVANO CARICHI DI VERGOGNA’
Eva Cantarella per il ‘Corriere della Sera’
MICHAEL PHELPS - JOSEPH SCHOOLING
Ne sta parlando tutto il mondo. Nessun atleta, mai, aveva riportato tante vittorie olimpiche individuali quanto Michael Phelps. Prima della strabiliante prestazione del nuotatore americano il record, in questo campo, spettava al greco Leonida di Rodi, che dal 164 al 152 a.C. ne aveva riportate 12, vincendo tre gare di corsa in ciascuna delle quattro successive Olimpiadi che si erano tenute in quegli anni: lo stadio (su un rettilineo equivalente ai nostri 200 metri), il diaulo (due stadi: circa 400 metri) e la corsa degli opliti (400 metri, in cui il corridore indossava l' elmo, lo scudo e gli schinieri, fino a quando, verso la metà del V secolo, questi ultimi vennero aboliti).
In una ipotetica classifica dei migliori, poco al di sotto di Leonida si trovava un altro corridore, Ermogene di Xanto - che come ricorda lo storico Pausania i greci soprannominarono «cavallo» - vincitore di tre prove (sempre stadio-diaulo-corsa degli opliti) sia nell' edizione dell' 81 sia in quella dell' 89 d.C. , mentre nell' 85 d.C. si era limitato al diaulo e alla corsa degli opliti. Povero Leonida, detronizzato da un giorno all' altro, a oltre duemila anni dal momento dei suoi exploit: con il suo tredicesimo oro Phelps ne ha cancellato il nome dalla vetta dei primati olimpici.
Sin qui i fatti: ma cosa significava una vittoria olimpica allora e cosa significa oggi, all' inizio del terzo millennio d.C. ? Per capirlo dobbiamo pensare in primo luogo che l' importanza di eccellere nello sport rientrava tra i valori che facevano parte della paideia , vale a dire della formazione del giovane greco; e in secondo luogo che con buona pace di De Coubertin per i greci l' importante non era partecipare alle gare atletiche, l' importante era vincerle.
E come la vittoria era il segno del valore, così la sconfitta era quello dell' inadeguatezza e della vergogna che ne conseguivano: come leggiamo in alcuni versi di Pindaro, chi è stato sconfitto torna a casa «per obliqui sentieri nascosti» (Pitica VIII, vv. 85-86). La vittoria invece dava la gloria, simboleggiata dal premio: nel caso delle Olimpiadi una corona di ulivo selvatico, che conferiva a chi la riceveva la celebrità in vita e l' immortalità nel ricordo. Ma nel tempo alle corone si aggiunsero altri premi: le statue erette dalle città natali in onore dei vincitori, i canti per celebrarli, commissionati ai poeti più celebri.
E a partire da un provvedimento di Solone anche dei premi in danaro, inizialmente modesti, che nel tempo presero a crescere. In un mondo nel quale esistevano ben pochi ascensori sociali, lo sport, grazie ai premi (e alla nascita dei ginnasi, nei quali tutti i cittadini potevano allenarsi) divenne un' attività alla quale potevano accedere anche gli appartenenti agli strati sociali meno fortunati, e la vittoria divenne un evento che ad alcuni poteva cambiare la vita.
E oggi? Ovviamente, non è facile istituire paralleli. A distanza di millenni le discontinuità sono enormi, ma questo non impedisce che - pensando al significato dello sport e della vittoria - sia possibile riscontrare alcune continuità: la prima di esse è il valore etico della vittoria, che non significa solo la capacità di superare gli altri; significa anche e forse soprattutto mostrare di essere riusciti a vincere se stessi, nello sforzo continuo di superare i propri limiti.
La seconda è che la vittoria può cambiare la vita: non solo economicamente, ma anche moralmente. La storia vincente di Phelps - tornato alle gare dopo il ritiro annunciato al termine dei Giochi di Londra 2012 solo per vincere la scommessa contro se stesso - sembra fatta apposta per dimostrarlo.