“PASSATO LO SCRIBA, RESTANO GLI SCRIBACCHINI, NEL MIGLIORE DEI CASI GLI SCRIBA...CHINI” - DOTTO RICORDA COSA DISSE L’ALLENATORE ANNIBALE FROSSI, CAMPIONE OLIMPICO NEL ’36, IN SEGUITO GIORNALISTA, A GIANNI CLERICI: “NEL CALCIO ARRIVERAI MASSIMO IN SERIE A, NEL TENNIS A WIMBLEDON. SCEGLI” – ALLIEVO DI BRERA CHE DISSE: “FRA LE MIE COLPE MENO VENIALI QUELLA DI AVER ISTIGATO UNO SCRITTORE DI SICURO TALENTO AL GIORNALISMO” – LA SFIDA CON TOMMASI SU CHI SAREBBE CAMPATO PIÙ A LUNGO
Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport
Era nato nel 1930, lo stesso anno di Neil Armstrong, il primo uomo a posare piede sulla luna, l’anno della prima proiezione a Berlino de “L’angelo azzurro”, il film che fa conoscere al mondo Marlene Dietrich, la diva più lunare di ogni tempo, l’anno della prima coppa del mondo in Uruguay.
Avendone viste così tante di cotte e di crude, di belle e di orride, avendone raccontate più di quante ne avesse viste, per via della sua straripante vena da affabulatore, un giorno, improvvisamente, si è sentito vecchio e se n’è andato, chissà dove. Peccato non sia stato possibile ascoltarlo un’ultima volta. La sua voce inguaribilmente snob e miracolosamente lieve avrebbe lasciato il suo capolavoro raccontando il proprio finale di partita, l’ultima volée, divinamente sconfitta e finita in un sospiro. Sicuramente leggiadro. Passato lo scriba, restano gli scribacchini, nel migliore dei casi gli scriba chini.
Si dice che i due, e quando si dice “i due” e si parla di tennis, non possono essere che loro due, Gianni Clerici e Rino Tommasi, quasi coetanei, si fossero un giorno scherzosamente dichiarati la sfida su chi sarebbe campato più a lungo su questa valle di lacrime, di dritti e di rovesci, facendo il verso a Enzo Biagi e a Sergio Zavoli (sfida, in questo caso, ampiamente vinta dal secondo).
Magari ipotizzando scherzosamente un’uscita di scena alla Molière, simultanea, in diretta, della serie “dopo di noi” il diluvio, commentando l’ultimo colpo di Roger Federer, un altro che non riesce a dare il suo tennistico addio perché fin troppo consapevole dell’abisso luttuoso in cui scivolerebbe il mondo e, dunque, adottando la sapiente strategia della fine centellinata. Sottilmente abituarsi giorno dopo, stilla di veleno dopo l’altra, all’ineluttabile lutto, non avendo noi umani sufficiente capienza per contenere cose troppo più grandi di noi, belle o brutte che siano.
Ci resta Rino Tommasi, ma chi sa quanto distante da sé, dal mondo e ora più che mai dal suo amico. Così diversi i due da risultare così intimi, Raffaello e Michelangelo, a cesellare la pietra e a scolpirla. L’uno che rilanciava l’altro nell’affinità dell’inconciliabile. Troppo intelligenti ed eleganti i due per ostinarsi e dunque dedicarsi una fine alla Molière. Sono sgattaiolati via in tempo, da vivi, giocando d’anticipo, mentre il tennis stava diventando una roba da “arrotini”, androidi sparsi tra campo e microfoni, invaso da eserciti di picchiatori dalla spalla bionica dentro un loop di noia accecante e ben prima dell’ultima piaga, l’avvento dei padellatori.
Come Roger Federer, i due ci hanno dato il tempo di abituarci alla mancanza, in questo caso della loro voce, mirabilmente assortita, nella magia permanente di una “mala” intesa che non aveva bisogno di copioni. Lo scriba ci ha lasciato il tempo e la facoltà di abituarci alla sua mancanza e a quella di Rino, a lui che ci raccontava gli eroi e le storie di Wimbledon come fossimo in una sala del Louvre o dell’Hermitage, ma sarebbe stato lo stesso fosse stato l’anfratto di qualche bordello minore. La sostenibile leggerezza della commedia umana, nella sua totalità, Clerici non si dava limiti né tregua nel raccontare.
“Quello del tennis” resta per tutti noi. Figlio unico di Lucia e di Luigi, eroe malato d’Africa e padre mitico in sella a un cavallo bianco, nella foto che Gianni teneva nel suo scrittoio. Venuto al mondo dalle parti di Como in una buona famiglia della media e dignitosa borghesia dedita allo sport e alle buone maniere. Mai pacchiana nelle tragedia e nei giorni di festa. Bambino esemplare, a sei anni, la sua prima lingua, il francese e la sua prima racchetta di legno (tennis, scherma o equitazione, non si scappava). Il primo circolo di Alassio.
Tennista più che dignitoso, ma sempre fuorviato e poi sopraffatto dalla voluttà della scrittura, a lato dei suoi studi mai troppo convinti di legge. Il suo giardino mitologico? Non quello di Wimbledon, ma quello di Villa Camuzzi dove aveva incontrato da ragazzo il suo Hermann Hesse, di cui aveva letto tutto, ma proprio tutto, senza trovare il coraggio di chiedergli un autografo. Ci tornò cinquant’anni dopo per prendere atto che tutto era cambiato.
Allievo e fraterno amico di Gianni Brera, “il Gadda spiegato al popolo” in una definizione di Umberto Eco. “L’uomo senza il quale non sarei mai diventato giornalista”, parole sue. In quel laboratorio di scrittura esplosiva che era “Il Giorno” di allora. “…Fra le mie colpe meno veniali è proprio questa, di aver istigato uno scrittore di sicuro talento al giornalismo”, scriveva Brera nella sua prefazione a un libro del prediletto Gianni del ’65.
Provò a scrivere anche di calcio, Clerici, ma mai troppo convinto e mai, soprattutto, troppo rapito. Fino al giorno in cui l’allenatore Annibale Frossi, campione olimpico nel ’36, in seguito giornalista, gli disse lapidario: “Nel calcio arriverai al massimo in serie A, nel tennis a Wimbledon. Scegli”. Gianni Clerici fece la scelta giusta.
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