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I GESTI BIANCHI DI FEDERER - LO SCRITTORE FAVETTO: "NEL TENNIS, AL POSTO DELLA NOSTALGIA, C’È ROGER, CHE HA LA CAPACITA' DI ESSERE CITAZIONE VIVENTE DI PEZZI DEL PASSATO (DA LAVER A SAMPRAS) E DI INCARNARE IL FUTURO: LO SVIZZERO GIOCHERA' PER ALTRI DUE ANNI - QUANDO NEL 2003 DISSE: "IL TALENTO PUO' ESSERE UNA TRAPPOLA"

FEDERER NADALFEDERER NADAL

Gian Luca Favetto per la Repubblica

 

Una mano sola. Nel suo caso, la destra. Tutta l’eleganza, la forza, la tenacia, la regolarità e l’invenzione, la fatica e il piacere del tennis, Roger Federer li tiene in una mano. Dietro i numeri e le statistiche che cantano la sua gloria, dietro i record, le mille e passa vittorie, i tornei vinti, i titoli del Grande Slam conquistati, i mesi e gli anni vissuti da numero uno del mondo, gli osanna del pubblico, dietro tutti i milioni guadagnati e dentro la leggenda del tennis c’è questa sua mano, che è insieme istinto e cervello, calcolo e cuore, diritto e rovescio, smash e servizio, volée e smorzata.

 

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Con questa mano Roger ha battuto il tempo. E non tanto perché in una domenica di fine gennaio, a 35 anni e mezzo, ha vinto per la quinta volta gli Australian Open contro il suo vigoroso e fedele amico- avversario di sempre, Rafa Nadal –fra l’altro, proprio la presenza di Rafa è servita a Roger per battere il tempo e rendere più luminosa l’impresa. Non è una questione di mera longevità; nemmeno è questione d’essere campioni assoluti nel proprio sport, nella propria professione.

 

È che Roger con il suo gioco sta incarnando il tempo, lo tiene in sé e non lo fa consumare. Questo svizzero per metà sudafricano, in parte anche australiano e pure svedese - lo è un po’ per vita e un po’ per sport, un po’ per ragioni di mamma, papà e passaporti, un po’ per i maestri e gli allenatori che ha avuto sul campo -, è un tennista il cui gioco e la cui persona sono diventati la medesima cosa. Ha dato uno spazio al tempo e si è messo al centro. La sua mano è quel luogo dove il tempo viene a raccogliersi e a stare comodo.

 

È l’Aleph borgesiano, dove passato e presente si mescolano insieme. E ora, al passato e al presente, si è aggiunto il futuro, visto che dopo la vittoria di Melbourne Federer ha detto di voler giocare per altri due anni.

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A controllare bene gli astri, si può credere che potranno essere ancora almeno cinque o sei: vuoi che Roger non finisca a braccetto di Ken Rosewall, uno che per un quarto di secolo ha conquistato tutto e di più, e a 43 anni nel 1977 ancora vinceva tornei?

 

Mi suggeriva un amico che il tennis è forse l’unico sport in cui non si vive la nostalgia per i tempi andati, in cui non si rimpiangono e non si rievocano i grandi campioni del passato. È vero. Considerando gli altri sport amati, sembra proprio così. È che nel tennis, al posto della nostalgia, c’è Federer, con la sua naturalezza, il suo talento, con l’intelligenza e la forza di volontà, con la sua mano.

 

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Ecco che c’entra la mano. C’entra il suo giocare a una sola mano, come gli eroi antichi, come i miti che hanno fondato e tramandato questo gioco, tutto naturale, sempre fluido, senza forzature e strappi: anche il rovescio, che viene via come se l’uomo fosse stato creato con le spalle, il braccio, l’avambraccio, il polso e la mano al solo scopo di eseguire il rovescio. Come se questo colpo fosse il gesto d’amore perfetto per ricongiungere la pallina al campo.

 

Così facendo, anzi così essendo – non è un fare, il suo, è un essere -, Federer conserva in sé e porta al nostro cospetto i grandi del tennis, da Perry a Budge, da Rosewall a Laver, da McEnroe a Sampras.

 

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È la loro citazione vivente. Mantiene nostri contemporanei anche quelli che non abbiamo visto giocare, di cui abbiamo sentito raccontare le gesta. E i gesti, che sono sempre gesti bianchi. È questa atmosfera, quest’aura che Federer preserva e trasmette. Ha qualcosa di diverso da tutto il resto e da tutti gli altri, perché è un pezzo di passato che continua nel presente e guadagna il futuro.

 

Sono i primi di maggio del 2003. Roger deve ancora compiere 22 anni. Gioca gli Internazionali d’Italia, testa di serie numero 4. Fino ad allora ha vinto una mezza dozzina di tornei, il primo a Milano nel 2001. Gianni Clerici lo incontra in sala stampa che si confida con alcuni giornalisti inglesi. Descrive la scena. Sono tutti in silenzio, solo Federer parla a bassa voce, dice di sapere che molta gente apprezza il suo gioco, perché lo trova fluido, variato, un alternarsi di rotazioni a tutto campo, rete inclusa. Poi aggiunge: «Il talento può essere una trappola.

 

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La possibilità di scelta può confondere. Quello che è più pericoloso è il narcisismo. Ci si compiace del colpo miracoloso, si ricevono applausi, si finisce per giocare per gli altri, per il pubblico. È rischiosissimo». Questo riesce a Federer: non gioca per il pubblico, non gioca per se stesso, gioca per il gioco. E il gioco del tennis è dialogo, persuasione, racconto.

 

Quella volta a Roma perde in finale contro lo spagnolo Félix Mantilla. Ma a luglio trionfa a Wimbledon, lascia agli avversari un solo set e sconfigge in finale Mark Philippoussis. Da allora, con il talento e l’applicazione, anno dopo anno, torneo dopo torneo, diritto dopo rovescio, diventa il signore del tennis. E adesso tiene in mano il tempo.

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