IL FUORICLASSE IN REDAZIONE - UNO STRUGGENTE MANFELLOTTO SU CLAUDIO RINALDI E IL SUO ROMANZO POSTUMO: "LE DONNE, I GIORNALI, LA MALATTIA. UN GRANDE GIORNALISTA E UN UOMO SPECIALE"
Bruno Manfellotto per l’Espresso
La malattia si manifestò, subdola e inesorabile, una mattina d’estate del 1986. Rendendo impossibile l’atto quotidiano di abbottonare il colletto della camicia, sul quale annodare poi una cravatta di Versace, prima di indossare una giacca di Armani... Da allora la sclerosi multipla non lo avrebbe più abbandonato, segnando per sempre il corpo e l’anima di Claudio Rinaldi, condizionandone pensieri, gesti, comportamenti, limitandone il destino umano e professionale. Per vent’anni.
Ed è proprio la malattia, protagonista sulla scena o riflessa nei tanti personaggi femminili, a scandire la trama di Ultimo volo della sera (Feltrinelli, pagg. 382, euro 20), un romanzo nel quale si mescolano fantasie e rimandi autobiografici, scritto nell’ultima fase della vita e rimasto per otto anni nella memoria del computer.
Andando a ritroso nel tempo Fabio, l’io narrante, ormai uomo di successo e direttore di giornale, fa i conti con il ragazzino complessato che fu, con la famiglia, con il padre amatissimo e apprezzato troppo tardi; ricorda gli studi (in cui eccelleva) alla Cattolica di Milano frequentata in piena contestazione; la breve militanza e la rottura, prima ancora dell’omicidio Calabresi, con Lotta Continua, di cui pure voleva farsi leader in competizione con l’amico Adriano Sofri; il tavolo da poker al bar Magenta con annessa galleria di personaggi improbabili; l’esordio e la rapida affermazione nei giornali; le battaglie politiche contro le superficialità, le volgarità, gli inciuci; e poi le corse su una improbabile Alfa rossa con Michele Serra e pochi altri fino alle roulette di Campione d’Italia…
CLAUDIO RINALDI EUGENIO SCALFARI
A sorpresa Fabio-Claudio si racconta in queste pagine imbranato, e certamente da giovane lo era; ma si capisce che, sempre corteggiatissimo dalle ragazze, mascherava con la goffaggine la personale convinzione che dovesse essere lui, e solo lui, a decidere a chi concedersi, e chi come e quanto possedere.
Per convincersene, basta scorrere nel libro il catalogo delle donne che hanno riempito la sua vita, alcune reali, altre di fantasia, altre ancora descritte come forse avrebbe voluto che fossero o come avrebbe voluto che lo guardassero e lo considerassero.
Su tutte spiccano Bianca, la moglie sempre amata, e Daria, interlocutrice dell’ultima stagione, quella in cui la malattia si fa più acuta e lentamente va spegnendo ogni essenziale funzione vitale, l’unica donna che gioca a non apparire affascinata e a non cadere ai suoi piedi, che riesce a provocarlo, che arriva perfino a mettere in discussione il suo rapporto con la malattia.
Claudio, proprio come Fabio, non voleva fare il giornalista, sognava di diventare uno scrittore o un poeta come l’amato Montale: finì in una redazione un po’ per caso, un po’ per necessità. Ma naturalmente una volta scelta la strada, era d’obbligo primeggiare. Come sempre. Il direttore che gli insegnò tutto del mestiere e lo amava come un figlio, Lamberto Sechi, rimase sbalordito quando gli portarono il suo primo articolo: implacabile com’era, non dovette aggiungere una virgola né correggere una parola. E infatti è entrato di diritto nel piccolo Guinness del nostro mestiere per aver diretto solo lui, l’uno dopo l’altro, tutti e tre i massimi newsmagazine del momento, l’Europeo, Panorama, l’Espresso. E ancora più su sarebbe arrivato se non fosse stato per quella maledetta sclerosi.
Tante sono le lezioni lasciate da Claudio Rinaldi, direttore di questo giornale per otto anni, dal 1991 al 1999. Qui ricostruiamo la sua lungimirante battaglia sul conflitto d'interessi e la sua preveggenza sulla parabola politica di Berlusconi
Eppure, si definiva la caricatura di un direttore di giornale: non ho mai lavorato all’estero, diceva, della maggior parte delle cose di cui si occupa un giornale non so niente e non conosco una parola di inglese. Insegnava a tutti noi a non prenderci mai troppo sul serio, e il primo a farlo era lui, che pure era un fuoriclasse.
I big lo sapevano e avevano deciso di cooptarlo. Ogni sabato, per esempio, si celebrava a Milano uno straordinario rituale: il pranzo dei Santoni. Ospiti fissi, Lamberto Sechi, Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Indro Montanelli, l’avvocato Vittorio d’Aiello, principe del foro e di Mani pulite. E Claudio, unico giovane ammesso sempre (per altri, è successo anche a me, valeva la regola dell’una tantum…). Teatro della rappresentazione, un ristorante toscano tra il Duomo e il Palazzo di giustizia, per via dei fagioli al fiasco cari a Indro.
Che spettacolo. Per una buona ora, i Grandi Vecchi provvedevano a distruggere sistematicamente giornalisti e direttori distribuendo pagelle da bocciatura. Poi il discorso volgeva sull’attualità politica e giudiziaria, e lì toccava a Claudio. Che parlava come se stesse leggendo un editoriale già uscito o quello che avrebbe scritto l’indomani. “Posso dettare a braccio qualsiasi testo”, si vantava. Una volta, costretto senza computer in un letto d’ospedale, scrisse il suo commento per “l’Espresso” con un sms dietro l’altro. Centotrenta battute per volta.
Sul lavoro era brusco nei modi, burbero negli atteggiamenti. Anche per questo vedeva solo pochi amici, e alla larga dai salotti. Mal sopportava le rituali riunioni di redazione, ma vi si sottoponeva non tanto per mostrare disponibilità quanto per dirigere l’orchestra, provocare, affascinare. Quando l’argomento non lo convinceva, tagliava corto con un “bollito”; quando la storia non meritava, si limitava al pollice verso. Direttore-imperatore.
Si reagiva con un sorriso perché non era mai autoritario, ma naturalmente autorevole, cosa che non a tutti i direttori riesce. E come un artigiano si applicava assieme a noi su foto e bozze. Amava la provocazione, la forza del sorprendente; pensava, come Arrigo Benedetti, che gli argomenti seri meritino leggerezza, quelli leggeri il massimo della serietà. Per questo si ostinava a riempire le copertine di tette e culi sotto titoli irridenti anche per illustrare battaglie epocali nelle quali, è proprio il caso di dirlo, si gettava anima e corpo.
Rigorosissimo con se stesso e con gli avversari che prendeva di mira - Craxi, Berlusconi di cui per primo capì la portata devastatrice, il D’Alema della Bicamerale - si documentava fino a diventare inattaccabile sul piano dei fatti. Con lo stesso metodo studiò i primi sintomi della sclerosi, che poi spiegò al neurologo con tanto di diagnosi finale...
Della sua malattia non parlava mai, qualche volta accennava genericamente alle placche, anzi alla placca, al singolare, con lo stesso spirito con il quale definiva “rancida” una notizia data per nuova. Quando fu costretto a farsi accompagnare, bandì la parola “badante” preferendo “assistente”. Come se la sua prima battaglia fosse non contro il male, ma per far sì che questo non tracimasse addosso agli altri. Ritegno e orgoglio.
Resta la domanda: perché Claudio cominciò a scrivere di sé? Chi lo ha conosciuto bene gli ha sempre scoperto anche quelle forme di esibizionismo che spesso accompagnano i campioni. Ma forse la verità è più complessa. Spegnendolo lentamente, la malattia gli fa riscoprire la vita, quella vissuta e quella non consumata (e chi meglio delle donne conosciute sognate immaginate le può rappresentare?), e gli fa scoprire un sentimento fino ad allora sconosciuto: il rimpianto, o meglio il ripensamento per ciò che non è stato o non ha avuto.
Come prologo al suo romanzo, Rinaldi sceglie una poesia attribuita a Jorge Luis Borges, nella quale tra l’altro si legge: “Se potessi vivere di nuovo la mia vita,/ nella prossima cercherei di commettere più errori./ Non cercherei di essere perfetto, mi rilasserei di più. / Sarei più sciocco di quanto non sia già stato, /prenderei ben poche cose sul serio… / Farei più giri in calesse,/ guarderei più albe, e giocherei con più bambini,/se mi trovassi di nuovo la vita davanti./ Ma vedete, ho 85 anni e so che sto morendo”. Claudio ne aveva 40 quando scoprì che se ne stava andando un po’ alla volta, 61 quando morì, il 4 luglio 2007.