SINDROME DI SHUTDOWN - L’AMERICA PARALIZZATA DAL TEA PARTY E DALLA DEBOLEZZA DI OBAMA: “NON TRATTO CON LA PISTOLA ALLA TEMPIA”

Danilo Taino per il "Corriere della Sera"

La settimana prossima Barack Obama non andrà in Asia. Ha cancellato un viaggio che era stato organizzato per riaffermare la centralità, il pivot , del continente dal punto di vista della Casa Bianca e per mostrare, facendo tappa in Malaysia e nelle Filippine, solidarietà a due Paesi che sono sotto la pressione della Cina a causa di dispute territoriali. Il presidente americano resterà a Washington a occuparsi dello «shutdown» - la chiusura di una parte delle attività del governo federale - e del rischio di un default sul debito pubblico che si realizzerebbe nella seconda metà di ottobre se il Congresso non autorizzasse il superamento del tetto del debito stesso.


Il fatto è che negli Stati Uniti è in corso uno scontro politico di grande portata e Obama ha deciso che la politica domestica è in questo momento più importante di quella estera. Comprensibile, tutti i Paesi hanno guai interni. È che quando riguardano gli Stati Uniti le onde alte arrivano in tutto il mondo: la superpotenza è tale anche nel creare problemi.

La crisi politica di Washington che blocca il Congresso e il funzionamento dello Stato centrale ha la maggiore delle sue origini nel partito repubblicano, per molti versi fuori controllo. Dopo due sconfitte elettorali contro Obama, non ha ancora trovato né un leader né una strategia.

Il movimento dei Tea Party - con forti radici di base, decisamente anti-statalista, contro le tasse e contro la riforma sanitaria votata nel 2010 (Obamacare) - mette sotto una pressione micidiale la gerarchia tradizionale del Grand Old Party, nel senso che minaccia i membri del Congresso che non appoggiano le sue battaglie di boicottarli al prossimo appuntamento elettorale. Il risultato è che i repubblicani tradizionalisti vorrebbero un compromesso con il presidente e con i democratici sul bilancio 2014, superando così lo «shutdown», e sul tetto del debito. I legislatori più influenzati dai Tea Party lo impediscono. John Boehner, il repubblicano speaker della Camera dei rappresentanti (dove i conservatori hanno la maggioranza), dà l'impressione di non avere il controllo del suo partito, della sua strategia e della sua tattica.

Ciò permette a Obama di sostenere che una parte di un partito in una parte del Congresso in una parte del potere americano blocca non solo la vita politica ma anche il funzionamento dello Stato. «Non posso trattare con una pistola puntata alla tempia», ha insistito ieri il capo della Casa Bianca.
Non è che in questa situazione il presidente sia del tutto innocente. Anch'egli oscilla spesso sotto la pressione della parte più radicale del suo partito, il democratico.

Una condizione che l'ha messo in difficoltà serie di recente: sulla Siria, dove avrebbe voluto un voto pro-intervento al Congresso ma si è poi accorto che lo avrebbe perso, con il risultato che ha dovuto accettare il gioco di Vladimir Putin e il rientro di Mosca negli affari del Medio Oriente; sulla nomina di Larry Summers alla presidenza della Federal Reserve, candidatura impallinata dal suo stesso partito prima ancora che prendesse il volo. Però, a un presidente che fino a pochi giorni fa mostrava difficoltà a imporre la sua autorità, i Tea Party e i repubblicani divisi stanno dando una mano enorme prendendosi sulle spalle, di fronte all'opinione pubblica, la responsabilità dello «shutdown» e il rischio del default tra un paio di settimane.


Le conseguenze sono appunto globali. La Malaysia e le Filippine hanno bisogno di un segno di solidarietà dagli americani, garanti degli equilibri nell'area, per resistere alla pressione di Pechino che avanza diritti su alcune isole nel Mare Cinese del Sud. In questo momento - per la soddisfazione della Cina - gli Stati Uniti fanno invece sapere di non esserci, di avere da fare a casa propria. Obama, tra l'altro, non parteciperà nemmeno a due summit regionali, in Indonesia e nel Brunei. Su un altro piano, il blocco politico a Washington e il rischio di default sono pericoli per l'intera economia mondiale, come hanno sottolineato la managing director del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde e il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. Il guaio è che il resto del mondo non può votare: né per i repubblicani né per i democratici.

 

 

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