SE TIRI IL CORDERO, DOPO UN PO’ SI SPEZZA - VIETATO SCRIVERE CONTRO IL QUIRINALE SU “REPUBBLICA”, E L’84ENNE GIURISTA LO SCATENANO SOLO PER MORDERE IL MORENTE BANANA - DOPO IL “CORRIERE”, CONCEDE UN’ALTRA INTERVISTA ANTI-NAPOLITANO AL “FATTO”: “SUL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE, IL COLLE HA TORTO, I PM DI PALERMO HANNO RAGIONE. LA CONSULTA DOVREBBE BOCCIARE LA RICHIESTA DEL PRESIDENTE”…

1- FRANCO CORDERO "IL COLLE HA TORTO E I PM RAGIONE"
Silvia Truzzi per il "Fatto quotidiano" di ieri, domenica 22 luglio 2012

Non sarà una guerra nucleare, com'è stato scritto, ma il conflitto d'attribuzioni tra poteri dello Stato sollevato dal Quirinale contro la Procura di Palermo non è né un atto frequente né un fatto politicamente irrilevante. Non solo per il terreno - delicatissimo - nel quale si muove (la trattativa Stato-mafia); anche per le premesse dal quale muove: ovvero la presunta violazione delle prerogative costituzionali del capo dello Stato. Per questo, a distanza di una ventina di giorni dall'ultima intervista, abbiamo nuovamente interpellato il professor Franco Cordero.

Nel suo discorso per l'anniversario della morte di Paolo Borsellino, Napolitano ha fatto riferimento alla sua qualità di Presidente del Csm.
Nell'anniversario dell'eccidio in via D'Amelio lodevolmente Giorgio Napolitano auspica scavi profondi, fuori d'ogni cautela motivata da cupe "ragioni di Stato", senonché gli ultimi eventi intorbidano l'aria. Nel predetto discorso formulava direttive sul come condurre le indagini, ritenendo compito suo vegliare, quale presidente del Csm. Frase da soppesare: non intendiamola nel senso d'una censura d'atti giudiziari esercitata dall'altissima sede; la disciplina dei processi è codificata; gl'interventi sovrani erano fenomeno d'ancien régime (ancora nell'art. 68 dello Statuto Albertino, 4 marzo 1848, "la giustizia emana dal re").

Mettiamo a fuoco i termini del caso che ha visto ascoltato Napolitano sul telefono intercettato dell'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino.
La mossa incongrua è contestare l'iter giudiziario palermitano. Dei pubblici ministeri ritengono false le dichiarazioni d'un ministro degl'Interni 1992-‘93 a proposito d'oscuri rapporti Stato-mafia: v'indagano; N.M. era sottoposto a legittimo controllo telefonico; manda insistenti appelli ai consiglieri del Quirinale; sollecita aiuti irrituali; conversa anche col Presidente . Qui esplode l'imprevedibile conflitto "tra poteri dello Stato" (art. 134 Cost.).

Era o no ascoltabile il Presidente?
L'assunto è che l'ascolto fosse abusivo, contro un "divieto assoluto": parole da non udire; non se ne possa tenere alcun conto; e i relitti vadano eliminati senza ritardo. Discorso nient'affatto plausibile. Sia detto en passant, rifluiscono categorie del pensiero-fantasia arcaico: vedi James George Frazer, Il ramo d'oro, o Marc Bloch, I re taumaturghi; ancora Carlo X Borbone, 31 maggio 1828, sfiora con le dita gli scrofolosi, recitando una formula meno impegnativa ("il re ti tocca, Dio ti guarisca").

Siamo in Italia, XXI secolo, anno Domini 2012. La questione non è mistica, magica o metafisica ma giuridica: quando detti del Presidente passano nei telefoni d'un intercettato, gli operatori devono tagliare corto, inorriditi?; e l'empio materiale va subito ridotto in cenere, qualunque cosa contenga, salvi i casi d'alto tradimento o attentato alla Costituzione?

Parliamo della norma secondo cui le parole in questione non sarebbero mai ascoltabili e tantomeno registrabili.
Non esiste. E se esistesse nella Carta o in leggi ordinarie, sarebbe residuo del folklore primitivo.

Proviamo ad analizzare le ragioni addotte nel decreto del Quirinale che solleva il conflitto d'attribuzioni.
Il decreto 12 luglio nomina due fonti. Secondo l'art. 90 Cost., il Presidente non risponde degli atti inquadrabili nelle sue funzioni, tranne alto tradimento e attentato alla Costituzione: vero e nessuno lo nega; stiamo parlando d'altro, del come usare o no parole d'un dialogo telefonico.

Né gli giova l'art. 7, comma 3, l. 5 giugno 1989 n. 219: a carico Suo gl'inquirenti possono disporre intercettazioni et similia solo dopo che la Corte competente a giudicarlo l'abbia sospeso dalla carica; qui nessuno aveva disposto ascolti del Quirinale; l'intercettato era l'ex ministro. Due situazioni non equiparabili.

Il giudice sottopone a controllo dati telefoni: l'ancora ignoto interlocutore appartiene a una cerchia indeterminata; sarà identificabile quando abbia parlato. Immaginiamo una norma concepita così: "Le parole del Presidente, comunque captate, anche in via fortuita, non esistono nel mondo delle effettualità giuridiche e i reperti vanno subito clandestinamente distrutti"; sarebbe invalida perché i processi elaborano possibili verità storiche nel contraddittorio delle parti; e può darsi che la decisione giusta dipenda dalle emissioni verbali obliterate; i segreti ostano alla cognizione critica; in ossequio a una mistica patriottarda li invocavano falsari reazionari nell'affaire Dreyfus.

Si parla di "vuoto normativo" per la legge sulle intercettazioni, in riferimento appunto al caso delle intercettazioni indirette di persone protette dall'immunità: c'è davvero un vacuum?
Corrono voci d'una lacuna e l'augurio è che sia colmata dalla Consulta. Non vedo lacune. Il caso è previsto dalla l. 20 giugno 2003 n. 140, contenente norme sui processi relativi alle "alte cariche dello Stato". Gli artt. 4 e 6 regolano due contesti: che sia disposto l'ascolto delle predette persone; o conversino con l'intercettato (distinzione capitale, l'abbiamo visto), allora spetta al giudice dire se le parole intruse siano o no rilevanti nella res iudicanda.

Consideriamo la seconda ipotesi: non interessano, ma sul punto vanno udite le parti in camera di consiglio; indi, se quel giudice non ha mutato avviso, i materiali saranno distrutti. Se mai noterei come il meno tutelato qui sia chi ha interesse all'uso del materiale in questione. Tale procedura seguono gl'inquirenti palermitani: l'avevano detto, che quei discorsi siano irrilevanti; l'imputato, o quasi tale, chieda l'incidente camerale (art. 6, c. 1); e tutto finisce lì, pacificamente. Il decreto 12 luglio dichiara guerra postulando un tabù nemmeno formulabile in moderna lingua giuridica.

La Procura di Firenze aveva già intercettato Napolitano.
Infatti non è il primo accidente del genere. Era avvenuto nell'aprile 2009: la voce del Presidente captata sulle linee del sottosegretario Guido Bertolaso, sul quale la Procura fiorentina indagava in tema d'appalti: frasi irrilevanti; nessuno ha eccepito la prerogativa; e figurano ancora agli atti nel processo traslato a Perugia, tanto poco importavano. Nessuno insidia i vertici dello Stato, largamente tutelati dalle norme. In sede storica notiamo come l'intero affare nasca da una gaffe omissiva: non sarebbe successo niente se quando l'ex ministro bussava telefonicamente alla porta del Quirinale, i consulenti gliel'avessero gentilmente chiusa; non erano cose delle quali fosse corretto parlare.

Crede che un eventuale accoglimento da parte della Consulta, possa costituire un pericolo per il futuro?
Cos'avverrà nel giudizio instaurato dal Presidente è materia prognostica, dove valgo poco: lasciamola ai cultori delle voci tra le quinte; in logica del diritto direi pensabile solo un responso negativo, nel senso che la Procura palermitana non abbia violato alcun limite.


2- LA RICANDIDATURA DI ARCORE
Franco Cordero per "la Repubblica" di sabato 21 luglio 2012

Nella mitologia politica italiana ricorrono i taumaturghi. Petrarca canta uno psicolabile notaio latinista romano, Cola, figlio dell'oste Lorenzo. Savonarola afferma d'avere le chiavi dell'altro mondo e gli credono. Machiavelli ammira Cesare Borgia, sanguinario figliolo del papa, restando deluso dal modo squallido in cui soccombe quando, morto Nostro Signore (così chiamavano i papi), Mater Ecclesia gli volta la schiena. Carducci venera Francesco Crispi, egomane visionario molto incline ai passi falsi. L'ormai vecchio Vilfredo Pareto (non era più al meglio d'una fredda intelligenza analitica) incorona l'epilettoide avventuriero giornalista Mussolini post Marcia su Roma (a Carlo Placci, 5 gennaio 1923).

Tra i secoli XX e XXI ne fiorisce uno impensabile in contrade meno lunatiche: lo vedono buffo, blagueur da quattro soldi, ma coltiva arti letali; corrompe mezzo mondo e impadronitosi della televisione commerciale, mediante spietate lobotomie disintegra pensiero, gusto, moralità. Tre volte sbanca la lotteria elettorale, mirando al potere assoluto, finché incappa nella crisi economica planetaria, la cui parte italiana gli è largamente imputabile. Era già perdente in test elettorali: fuori degli affari suoi risulta inetto; interni postribolari svelano un'abissale stupida volgarità (dirlo è giudizio politico). Cade malissimo, dopo l'ultimo tentativo d'imbroglio. Gravato dall'eredità fallimentare, il successore tiene il campo in Europa, dove lui era zimbello.

La cronaca recente fornisce esempi alla storia dei dogmi. Quattro secoli fa domenicani e gesuiti disputano sul libero arbitrio: secondo i reverendi Societatis Iesu, ognuno è padrone della sua sorte, potendo scegliere tra pulsioni contrarie; nell'opinione tomista, fedele a sant'Agostino, invece, l'impulso prevalente determina gli atti umani, venga dalle ghiandole o dallo Spirito santo. Il santo vescovo d'Ippona formula teorie freudiane ante litteram. A modo suo è o era una gran macchina Silvio B., nato senza gli organi da cui dipendono visione intellettuale, lume estetico, tensione morale: poco male nello struggle for life, anzi il meno diventa più.

Ridotto all'automatismo biologico, non perde colpi, nel genere terribile del caimano Leviathan: scivola sott'acqua; attira le prede; azzanna, inghiotte, indi spalanca le fauci; uccelli di palude gliele puliscono lucrando ricchi pasti. Nelle cacce gli giovava la maschera del buontempone garrulo, smentita da mascelle e occhi (uno in particolare).

Diversamente dagli alligatori sazi, quindi tranquilli, ha l'appetito furioso degli squali, il cui stomaco esige continuamente cibo: così accumulava soldi in quantità colossali; e godeva d'un culto in forme adeguate al rudimentale Ego gonfio. Disarcionato, posava a guerriero stanco, ormai fuori della mischia, ma gl'indizi parlano: l'essersi scelto un innocuo figurante destava dubbi sulla successione; simulando ossequio all'attuale premier sfrena molossi ringhiosi; falchi e poiane stridono.

La ricandidatura era nell'aria. Eroicamente l'annuncia a ciglio asciutto lo pseudoerede, messo da parte perché «gli manca un quid». Corrono dubbi sulla rentrée, troppo simile alle storie del vecchio pugile suonato. Giovedì 13 luglio diserta il concilio dei cristiano-riformisti nell'afoso Hotel Ergife, dove l'aspettavano 150 poveri vecchi ivi cinicamente trasportati dalle case d'un lugubre riposo. L'indomani ipse loquitur: è vero; «torno
in pista»; non svaniranno 18 anni d'una gloriosa missione politica. Ovvio l'entusiasmo cortigianesco (l'ex ministro Giancarlo Galan lo racconta in metafore sessuali: chi studia i livelli spirituali della cultura d'Arcore se le legga nel «Corriere della Sera», 13 luglio). Altrettanto ovvia l'invettiva contro i nuovi rampanti: «pagliacci » e «improbabili consiglieri»; l'arena aspetta partite all'ultimo sangue tra due corti dei miracoli.

Dominus Berlusco dispone sovranamente della carne umana, quindi impone dimissioni (negoziate, è presumibile) alla consigliera regionale lombarda, intendente delle soirées; ma che non sia un'innaturale conversione, consta dall'ascesa dell'onorevole Maria Rosaria Rossi, gerente d'altre feste: sceglie lei, dicono, i futuri parlamentari («Corriere», cit.). Lo stile padronale non ammette sconti: s'è allevata una specie d'italiano; impone look, mimica, loquela; fuori dai piedi chi azzardi l'ombra d'un pensiero.

Le conclusioni politiche stanno in due parole, «mala tempora»: comunque la camuffi, fingendo intenti seri, la ricandidatura significa fuoco alle polveri; in Europa e oltre Atlantico desta panico il rischio d'un Re Lanterna nell'Italia decerebrata, quale sarebbe se fossero attendibili i pronostici dove, lui assente, i voti cadono all'8-12% ma saltano al 17-21% solo che metta il nome, presidente del partito, e appena ridiventi leader, superano il 28, verso una trionfale maggioranza relativa.

Cabale ma in qualche misura l'occultista incide sui fatti. Quando l'acqua salga alla gola e gli speculatori arrembino (agosto è mese tempestoso in borsa), il vecchio negromante ridiventa satanasso, forte dell'ordigno con cui lavora cervelli, midolla, ghiandole: «Lo spread non era colpa mia; l'avete sotto gli occhi; stavamo meglio allora o no?; votandomi ritrovate l'Italia florida, un fisco benevolo, giustizia malleabile, privacy sicura». Se gli riuscisse il volo sull'aquilone tricolore, spinto da angeli soffiatori, diventeremmo la monarchia caraibica che aveva in mente: segue traiettorie inesorabili; non basta più nemmeno Atropo (la Parca che taglia i fili); estinto lui, brulica la masnada famelica. Il segretario Pd lancia l'allarme.

Bene, ma al secondo posto siede un cardinale nipote, omonimo del mellifluo plenipotenziario d'Arcore, e prega Iddio che non ripulluli l'antiberlusconismo radicale (mai visto: oppositori gentiluomini covavano «larghe intese»; l'avevano accreditato statista, più o meno liberale; erano argomenti tabù conflitto d'interessi, figure belluine, analogie con gli avvenimenti tedeschi 1932-33). Costui riteneva fattibile una lexiuncula che risolvesse le rogne giudiziarie all'augusta persona: perché no?; e spiega come il Pdl sia preferibile alla deriva antipolitica. Nello sciagurato teatro politico d'Italia circolano dei coatti a ripetersi.

 

FRANCO CORDEROGIORGIO NAPOLITANOSCALFARI NAPOLITANOingroiaFRANCESCO MESSINEO CAPO DELLA PROCURA DI PALERMOla sala della corte costituzionaleBerlusconi E MINETTImariarosaria rossi ANGELINO ALFANO ANGELINO ALFANO A PORTA A PORTA

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